Crap, scommessa poco folle: un ristorante da far perdere la testa

Uno dei laboratori attivati col progetto OrtoPorto
Uno dei laboratori attivati col progetto OrtoPorto
di Rosario TORNESELLO
6 Minuti di Lettura
Domenica 26 Novembre 2017, 19:43
La oppure là, se l’accento basta a indicare un luogo, reale, concreto, non solo immaginato perché frutto delle idee e della mente, fantasioso ma non fantastico, giacché non sempre sono gioie e spesso anzi sono dolori, per quanto non ci siano né piaghe né ferite, nessun livido sulla pelle, nulla di nulla, fuori almeno, perché dentro è un tumulto di sensazioni ed emozioni, di stati d’animo convulsi e pensieri contorti, dentro, molto dentro, dove è difficile arrivare e a volte, per meglio dire, semplicemente impossibile addentrarsi, anche per i più bravi, anche per i più esperti, perché nulla è più intricato della mente umana quando ai bivi della vita lentamente ci si avvolge su se stessi, un groviglio, e le uniche piaghe, le sole ferite sono là. Con l’accento, appunto. Là, nell’anima.

La, senza accento, è l’articolo giusto per Crap. In forma svolta, senza acronimo, è Comunità riabilitativa assistenziale psichiatrica. A Lecce è all’interno di Villa Libertini, ex Opis. Una volta era il reparto paganti del manicomio. È operativa dal 2011, un bel po’ di anni dopo la legge Basaglia, riforma varata nel 1978 per chiudere i manicomi, ma non così in fretta. In Italia una cosa è dire e un’altra è fare, e con 7.600 chilometri di costa è fin troppo evidente cosa ci sia in mezzo: qui è trascorso un mare di tempo per mettere fine al passato e aprire al futuro. «Quando sono arrivato nel 2010 - spiega Sergio Longo, psichiatra, una lunga carriera alle spalle, dal concorso del 1990 in poi - questo di fatto era un residuo manicomiale. L’ultimo dei reparti era stato chiuso nel 2000, ma deve essere stato duro sradicare pratiche assistenziali e modalità operative. Una piccola sacca di resistenza è andata avanti per il primo decennio del nuovo secolo, di fatto una sopravvivenza delle vecchie strutture». Detto così si potrebbe pensare a un massiccio impiego di farmaci, importanti solo se nelle giuste dosi; a pazienti relegati per la gran parte del tempo a letto, a dormire, e a pasti consumati da ciascuno per conto proprio, su tavolini singoli, così velocemente che forse il termine giusto sarebbe divorare più che mangiare. O ingurgitare. Insomma, un vero manicomio. Poi il cambio di passo.

Pazza, pazzo. Le parole immediate sanno essere feroci. Segnano le distanze, marcano il terreno di indagine: coinvolgono o ignorano; includono o escludono. Tracciano un destino. Crap ce ne sono diverse. Solo nell’Asl di Lecce altre quattro. Nessuna classifica da fare. Solo occasioni da cogliere al volo, spiegare, raccontare. E in fondo proprio cogliere, anche nel senso più intenso di raccogliere, è forse la chiave di volta, il lemma giusto per cancellare gli altri, immediati e feroci, incistati nell’impossibilità di immaginarsi qualcosa di diverso, di dirla e di farla. Qui la particolarità è nella terra, nel terreno, nella capacità di affondare le mani. Se l’anima non puoi raggiungerla, puoi farla uscire fuori. Innaffiarla e aspettare di vedere cosa ne sarà. Quattordici pazienti gravi e molte difficoltà, a Lecce. A partire dal personale: dovrebbe esserci un operatore per ospite, non è così. La differenza è colmata dalla buona volontà. Si parte dalla riabilitazione intesa come capacità di badare a se stessi e al proprio ambiente, le prime mosse per il recupero. E da una rivoluzione in quattro lettere: cibo. Non più da mandar giù a forza, avidamente, velocemente, unica pausa che la veglia concede al sonno e alle medicine. Ma cibo da creare con le proprie mani: piantare, curare, cucinare. E condividere. Via le postazioni singole, ora una tavolata mette assieme le pietanze e le parole, incrocia gli sguardi, riannoda le emozioni. La disponibilità di un’area verde, tutt’intorno, consente il piccolo miracolo. Si chiama “OrtoPorto”, giacché le parole sono importanti.

Orto, e sia. Ma perché “Porto”? «È l’idea che ho dei luoghi che sono insieme di approdo e di transito - spiega Longo, sulla tolda di comando affiancato da Tiziana De Donatis e Chiara Reho -: arrivi, fai il pieno di carburante, rifornisci la cambusa, carichi o scarichi le merci e parti. Via: nei porti non si staziona a lungo. E qui deve essere così». La struttura è promiscua, uomini e donne insieme, da 28 a 67 anni. «Bisogna saper gestire la condivisione e la relazione, in tutti i sensi. Aiuta, aiuta molto». Ed è aperta: gli ospiti possono entrare e uscire. Ci sono degli orari, per carità; delle regole. Ma concedere ampi margini di libertà al movimento è dare fisicamente prova di credere nei percorsi di recupero. La fiducia è una leva formidabile. «Li devi spingere a fare. Se butti via la chiave e custodisci dei corpi è chiaro che nessuno mai progredirà. È un cambio di filosofia che rispecchia l’evoluzione della psichiatria: o cristallizzi la situazione attuale o promuovi la salute mentale». È andata la seconda opzione. Nessun problema fin qui, almeno sotto questo aspetto. Solo effetti collaterali: uno degli ospiti, una specie di tombeur de femmes in riposo forzato, pare abbia fatto strage di cuori nel vicinato. Aiuta? Aiuta.

Dal 2011 “OrtoPorto” fa da apripista a una serie di iniziative che completano il programma: i corsi di cucina, la costruzione del forno per il pane fatto in casa, possibile grazie ai proventi della vendita dei prodotti della terra, che poi vuol dire contatto con il resto del mondo, quello dei cosiddetti sani, e quindi convivialità. Il 2017 è stato un anno di buco («problemi burocratici, diciamo») per gli “OrtoPorto day”. Si torna per l’estate 2018, segnatevelo in agenda. In mezzo, la partecipazione a simpatiche iniziative gastronomiche, ospitate all’interno di Villa Libertini (“Agnus day”) o frequentate all’esterno (“Purceddhruzzi day” con tanto di primo posto, roba da matti!). E poi gli accordi strategici e le partnership di prestigio: Slow Food, che qui ha la sede della condotta leccese; Coldiretti; gli scout del gruppo Agesci Lecce 3; GustaMente Puglia e, infine, le aziende private del mondo agricolo.

Gioia è pensare le cose. Tornare a farle. Avere idee e metterle in circolo. Farle fruttare e moltiplicarle. La partecipazione a un bando (Orizzonti solidali della Fondazione Megamark) ha attivato un finanziamento per 19mila euro completamente investiti nell’acquisto di una cucina professionale. L’obiettivo è ambizioso: «Puntiamo a creare un punto ristoro a servizio degli uffici dell’Asl che si muovono intorno all’ex ospedale - spiega Longo -, in questa che è la Cittadella della salute. Potremmo staccare alcune stanze della Crap annesse alla cucina e destinarle a sala mensa. Così alla fine il ciclo sarebbe completo: qui si producono le materie prime, si elaborano i cibi, si servono in tavola e si consumano. Siamo in moto, vedremo». Gli chef si alternano alla cattedra e ai fornelli: Mimmo Persano, Sara Latagliata, Mara Fornari, Matteo Romano... Uno sguardo anche alla cultura, altro luogo di incontro e di scambio. Di condivisione. Una biblioteca aperta agli esterni, dove prendere e portare dei libri. Tutto serve, tutto si tiene. Ci saranno altri giovani che, finito il percorso di recupero, riprenderanno il loro lavoro; altre mamme che, una volta fuori, organizzeranno una capatina alla Crap per sfornare qualche manicaretto caldo; ragazze che qui hanno ritrovato la parola e la capacità di esprimersi, tanto da pubblicare i propri lavori. Poi ci sarà pure chi resta qui solo perché dimenticato: le famiglie non ne vogliono sapere e anche la giustizia gli gira le spalle. Succede. Sempre di meno, ma succede.

Longo, che fuori dalla Crap è in servizio al Csm diretto da Serafino De Giorgi (Centro di salute mentale, sia chiaro, da non confondere con altro organismo, per carità) sa come gira il mondo. Come va la vita. Come, poco o molto, fuori si danzi tutti sull’orlo del baratro, fra picchi di stress e crisi d’ansia. Qui, all’interno, né l’uno né l’altra. Si parte da disturbi bipolari e schizofrenia, specialità della casa al pari di melanzane, pomodori fiaschetto, cipolle rosse e fagiolini. Ma al crescere di queste diminuiscono quelle. E con esse il tempo di permanenza nella struttura riabilitativa, ormai un anno e mezzo in media. Non è poesia, per quanto i corsi all’interno si susseguano. Non è pittura, nonostante i laboratori. Ma è comunque arte: di vivere, far vivere e far tornare a vivere.


 
© RIPRODUZIONE RISERVATA