Giovani e disagi: il benessere come qualità del sistema sociale

Giovani e disagi: il benessere come qualità del sistema sociale
di Terri MANNARINI*
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Domenica 19 Novembre 2023, 10:38

La lettura della condizione giovanile in chiave di “fragilità” o di “sregolatezza”, quadri interpretativi non alternativi ma associati – nel senso che il secondo viene spesso spiegato ricorrendo al primo – non rappresenta una novità culturale. Anzi, reitera una visione che, con le dovute sfumature, è stata applicata a molte “giovani generazioni”, ogni volta invocando delle peculiarità storiche che renderebbero ciascun passaggio più complesso del precedente. 
 

Dovremmo però riflettere sul fatto che questa visione dice forse più del mondo adulto che dei ragazzi e delle ragazze di cui vorrebbe spiegare il comportamento e oggi, in particolare, il disagio
Intanto va osservato che, come tutte le categorie, anche quella dei giovani si compone di una una moltitudine di esperienze, soggettività e condizioni. Tuttavia, in una narrativa dominante che li vuole tutti/e confinati/e nel disagio e nella vulnerabilità, le moltitudini scompaiono: tanti e tante giovani diventano invisibili, senza voce e senza corpo. Pur senza intenzionalità, l’applicazione reiterata del “disagio” come epitome di un’intera generazione crea uno stereotipo resistente: quello secondo cui i ragazzi e le ragazze siano essenzialmente persone bisognose, incapaci, da sole, di affrontare la vita.

Questa lettura, va detto, rientra in una tendenza culturale che un sociologo come Frank Furedi considerava, già vent’anni fa, ampiamente consolidata, ovvero l’inclinazione a leggere i problemi sociali, ma anche le normali esperienze, con le categorie della psicologia. L’adozione su larga scala dei termini psicologici nel linguaggio quotidiano, con una preminenza attribuita alle emozioni e al benessere, rende oggi difficile distinguere, per esempio, un trauma da una qualunque altra esperienza avversa, e si accompagna alla tendenza a patologizzare qualunque reazione emotiva negativa. In questo modo, il senso di vulnerabilità così spesso evocato per definire la condizione giovanile, viene in realtà incoraggiato, anzi costruito: rappresenta, infatti, una trama di significati attraverso cui le persone interpretano e danno senso alle proprie esperienze.


Non basta: la tendenza di cui stiamo parlando si inscrive all’interno del più ampio processo culturale che ha fatto del sé e della sua felicità l’origine, il centro e il destino dell’esistenza umana. Il benessere – declinazione psicologica, appunto, della felicità (appannaggio della filosofia e, incredibilmente, dell’economia) – è oggi un imperativo: esiste un “dovere di stare bene” che finisce con il considerare tutto ciò che è mal-essere, o meglio, tutto ciò che non si allinea a quanto previsto dal modello normativo di benessere, come sbagliato: si provano più emozioni negative che positive? È disagio.

Si è insoddisfatti della propria vita? È disagio. Non ci si dà sufficiente valore? E’ disagio. Insomma, non c’è da sorprendersi, se questo è il filtro culturale con cui guardiamo, che le persone pensino di stare male, e che il malessere sia ovunque.


Dovremmo provare a cambiare sguardo. Considerare il benessere e la salute mentale non come una proprietà dell’individuo, un obiettivo da raggiungere a tutti i costi secondo parametri normativi (pena sentirsi deficitari, fallimentari, quindi “disagiati”), ma come una qualità del sistema sociale, nel suo insieme e nei suoi microsistemi: è principalmente la qualità delle scuole, dei servizi, dei luoghi pubblici, dei quartieri, delle istituzioni, delle relazioni sociali primarie e secondarie, che fa il benessere delle persone. In pratica, è il mondo-in-comune e la sua capacità di rappresentarsi e farsi percepire come mondo-in-comune a definire il perimetro entro il quale si dipana una “buona vita”. In questa chiave, per i ragazzi e le ragazze sono cruciali i contesti in cui fare esperienza del mondo-in-comune: nella variante formale o informale, i luoghi associativi – dalle scuole alle università, agli spazi pubblici della città, senza citare le associazioni di ogni tipo e ambito – rappresentano l’infrastruttura essenziale per creare legami oltre la cerchia delle reti primarie, connettere il sé agli altri in chiave societaria e sostenere la capacità di aspirare, cioè la capacità di navigare nella realtà e di immaginare un futuro non esclusivamente circoscritto all’orizzonte individuale (e alla felicità personale). L’infrastruttura da sola però non basta, se non si accompagna a una pratica culturale di decostruzione delle narrative dominanti (sulla gioventù, sulla felicità e su altro ancora) e di emersione di forme nuove e alternative di soggettività, prima ancora che di benessere. Senza pretesa di esclusività, c’è un luogo migliore delle università per questo compito? 
* Psicologa sociale
Dipartimento di Scienze Umane e Sociali
Università del Salento

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