Marcella, la via del coraggio. Per ora solo al nord

Marisa Fiorani in uno dei tanti incontri a scuola per parlare della figlia, Marcella Di Levrano (alle spalle)
Marisa Fiorani in uno dei tanti incontri a scuola per parlare della figlia, Marcella Di Levrano (alle spalle)
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 4 Febbraio 2018, 20:04
Marcella. Si chiamava così. Marcella Di Levrano. Nessun errore, le lettere ci sono tutte, ognuna al suo posto. A mancare è solo lei. Era giovane. Era bella. Si dice sempre, non sempre a ragione. Stavolta sì. Sembra l’inizio di una favola. Spiacenti, non lo è. Qui non c’è la principessa. Manca anche un principe. C’è l’eroina, ma l’altra: cattiva, mortale. Cavalieri neri, quelli quanti ne volete. Mostri e fantasmi a ogni angolo. Buio, tenebre, ombre. Non c’è neanche una morale. O forse sì: ma bisogna cercarla oltre l’orrore. Però il lieto fine no, non c’è e non ci sarà: sono morti tutti. Quasi tutti. Sopravvive la speranza. Sopravvive una madre. Sopravvive la figlia della figlia. E sopravvive un impegno, sempre più condiviso. Quello di tramandare una memoria. E restituire verità e dignità a una storia. Non è un lieto fine. Ma a questo punto, davvero, non c’è altro fine.

Si chiamava Marcella. Fu uccisa a colpi di pietra. Era il 1990. Scomparve una sera di marzo. La ritrovarono il 5 aprile, di pomeriggio, nel Bosco dei Lucci, tra Mesagne e Brindisi, le città dove era nata e cresciuta. Jeans, maglietta, accanto ancora il masso usato dall’assassino, dagli assassini. Irriconoscibile. Il 18 aprile avrebbe compiuto 26 anni. A casa, ad attenderla, una bimba di sei. La sua bimba. Nessuno pagherà per quel delitto. Nessun imputato, nessun colpevole. Niente. Molte parole, quelle dei collaboratori. Molti sospetti, quelli degli investigatori. La verità processuale ha bisogno di riscontri. Sono mancati. Ma la verità ridotta alla sua essenza, priva di qualsiasi aggettivazione, oltre la necessità di dare un nome e un volto al responsabile, uno o tanti che siano, viaggia sui binari della coscienza, salta le aule di tribunale e arriva dritta al cuore. Un percorso lungo, lunghissimo. Marisa, la madre, l’ha voluto compiere tutto, fino in fondo. Ha 77 anni, oggi. Non le interessa altro. Solo la verità. Tutta la verità. Nient’altro che la verità.

Si chiamava Marcella. Era la seconda di tre sorelle. Una famiglia come tante; gioie e dolori come tanti; litigi; divisioni. Era brava a scuola. Le Medie, il Magistrale. L’affetto per i nonni. Le sue passioni, la musica, Renato Zero. Poi il black out: la marijuana, l’eroina e il salto nel buio. Le amicizie sbagliate. Per la Sacra corona unita erano anni di sangue: le casse esplodevano di denaro, la droga, le estorsioni, le sigarette di contrabbando. Il traffico di armi. Appetiti difficili da tenere a freno nella lunga e cruenta stagione delle lotte, degli agguati mortali, dei regolamenti di conti nella conquista del territorio palmo a palmo, paese per paese. E tra Mesagne e Brindisi correvano i fili ad alta tensione di una storia criminale cominciata da poco eppure già devastante. Marcella si era persa lì. Fino alla gravidanza. Inattesa, per lei così giovane. Le dicevano di abortire, i suoi amici; il padre, un ragazzo di San Pietro, figlio di una famiglia perbene, normale, ma perso anche lui, non voleva saperne nulla. Lei ne fece una ragione di vita, invece. Un motivo di riscatto. Un punto di svolta, diventare madre a quell’età. In un diario l’impegno a venirne fuori. Scriveva, raccontava. Annotava il suo dialogo, serrato, appassionato, con la vita che le cresceva in pancia. Ne verrò fuori. Sarò forte, vedrai. Cresceremo insieme. Decise di parlare con le forze dell’ordine. Gli errori fatti si cancellano. Almeno si prova a farlo. O quanto meno a porvi rimedio. I mafiosi, però, cancellarono lei. Fu la morte destinata ai “traditori” quella a colpi di pietra. La criminalità ha il suo codice al rovescio. Per me non fa niente, furono le sue ultime parole all’assassino. Ma ti prego, pensa alla mia bambina. Pensa a lei.

Si chiamerà Marcella, Marcella Di Levrano, la strada che il Comune di Siziano, in provincia di Pavia, le dedicherà il 24 marzo prossimo. La comunicazione ufficiale è arrivata all’inizio della settimana. “Cara Marisa, spero di fare cosa gradita nel comunicarti che abbiamo deciso di intitolare una strada del nostro paese a Marcella: la sua storia ci è entrata nel cuore e abbiamo voluto farne un esempio per i nostri cittadini. È importante difendere la memoria di chi si è ribellato e ha combattuto contro le mafie nel silenzio e si è sacrificato per difendere la legalità”. Firmato: il sindaco Donatella Pumo. È un paesino di seimila abitanti, Siziano, zona nordorientale della provincia pavese, al confine con quella di Milano. Mille chilometri da Mesagne, dal Salento, dalla Puglia, dove a Marcella non è intitolato nulla. «Ogni anno organizziamo manifestazioni antimafia, collaboriamo con Libera - spiega il primo cittadino lombardo -. Abbiamo avuto ospite Marisa, grazie a lei abbiamo conosciuto la storia di sua figlia. Mi ha colpito molto. E come me i miei concittadini, i ragazzi soprattutto. Qui c’è una zona di espansione. Abbiamo già dato dei nomi significativi alle strade del rione, così per quest’anno ho pensato a lei. La cerimonia avverrà con un corteo che partirà dal piazzale della biblioteca, percorrerà via Giovanni Falcone, via Paolo Borsellino, via Carlo Alberto Dalla Chiesa e via Angelo Vassallo, per arrivare in via Marcella Di Levrano». Collaborerà all’iniziativa il presidio di Libera di Pavia, anche questo dedicato a lei. Come hanno fatto a Gorizia. E a Seriate, in provincia di Bergamo, con un bene confiscato alla criminalità organizzata: taglio del nastro e bottiglia stappata, un rosato di negroamaro prodotto da Libera Terra su terreni sottratti alla Scu. “Emmedielle”, è scritto sull’etichetta. Non è difficile capire perché.

Marcella. «Le girarono le spalle - racconta la madre, Marisa Fiorani -. Intorno a lei tanto pregiudizio e molta diffidenza. Era una ragazza buona, estroversa. Non cresciuta per strada. Affettuosa, con valori profondi. Lo si capisce leggendo le pagine del diario dedicato alla figlia. Era molto legata alla famiglia. Adorava i miei genitori. Poi il tunnel della droga. E la voglia di tirarsi fuori. Una sera la sentii gridare al telefono. Avevano compiuto un omicidio a Mesagne. Un fatto eclatante». Antonio Antonica era l’ex figlioccio di Pino Rogoli, ormai in rotta col padrino: gli spararono per strada, rimase ferito; i killer finirono il lavoro quella notte stessa, con una clamorosa irruzione nell’ospedale di Mesagne, dove il giovane era stato ricoverato. «“Mamma, mi disse Marcella, stai tranquilla. Mi salvo. Questi sono degli animali. Si stanno scannando tra di loro. Lo faccio per mia figlia”. Tu fallo per te, le urlai. Non è bastato. Con Libera, grazie all’aiuto di don Luigi Ciotti e all’impegno di persone straordinarie come Enza Rando, don Raffaele Bruno e Fernando Orsini, ho ricostruito quel che era accaduto: mia figlia aveva iniziato a collaborare con le forze dell’ordine; voleva uscire dal giro, come aveva promesso. Era l’impegno solenne con la sua bambina. Ma non ne ha avuto la possibilità; non le hanno dato scampo. Tempo fa ho letto un’intervista di Gianmarco Di Napoli per “Senza Colonne”: parlava uno degli investigatori che era in contatto con Marcella, lo stesso che poi troverà il suo cadavere. “Trottolino”, il nome in codice. “Proteggerla non era facile”, diceva, “per tutti noi è un tormento non aver catturato i suoi assassini”. E aggiungeva che Marcella non aveva mai chiesto soldi. Ecco un’altra sua caratteristica: la dignità».

In nome della figlia ora percorre l’Italia, partecipa ai convegni, testimonia nelle marce per la legalità. A lungo non ha potuto sfogare rabbia e dolore, «la mia famiglia non voleva». Poi ha trovato il coraggio una mattina che in Rai parlavano delle vittime di mafia. «Ho cercato Libera, fin lì non la conoscevo». Era il 2008, quell’anno l’associazione di don Luigi avrebbe celebrato a Bari la giornata contro le mafie. «Da allora non ho più smesso. Spero di sapere tutta la verità, anche se cinque pentiti hanno raccontato chi e perché mi ha strappato mia figlia. Per un processo è troppo tardi, ormai. Ma per la verità no. Serve a recuperare la nostra storia, a ritrovare i luoghi cari. Mi fa piacere quello che accade, le iniziative in sua memoria. Mi dà la speranza che si possa cambiare. Il senso di questa tragedia, se un senso può avere, è tutto qui».

Marcella Di Levrano non è più “la drogata” o peggio ancora: è il nome ricordato ogni anno in primavera, il 21 marzo, giornata della memoria e dell’impegno, quando le vittime di mafia smettono di essere elenco mesto e triste della disfatta per diventare nelle piazze d’Italia giuramento solenne a non dimenticare e proprio per questo a non cedere. Il suo assassino, se l’indicazione dei pentiti risponde a verità, è morto ammazzato per altri motivi e per le immancabili faide. Mesagne, che da tempo ha cambiato volto e recuperato la sua storia, dedicherà il presidio di Libera che finalmente arriva a celebrare il nuovo tempo della città. La figlia, da anni al nord, dove vive anche Marisa, ha messo al mondo una bambina. Marcella sarebbe nonna. Ora riposa nel cimitero di Mesagne. Poco distante da lei la tomba di Melissa Bassi, uccisa una mattina di maggio, sei anni fa, da un ordigno esploso all’ingresso di scuola, a Brindisi. Altra follia.

Dicono che nel Bosco dei Lucci fioriscano il corbezzolo, il mirto, il caprifoglio. E che cresca un raro esemplare di quercia da sughero, fondamentale per l’ecosistema: serve a ridurre l’inquinamento perché rilascia ossigeno, ancor di più se decorticata. Un piccolo scrigno di biodiversità. Un serbatoio di vita oltre la morte. Non è un lieto fine. Ma è pur sempre un buon inizio.


 
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