Pellegrino: «Nel caso Moro manca un tassello fondamentale: lui»

Aldo Moro in una foto scattata dalle BR durante il sequestro
Aldo Moro in una foto scattata dalle BR durante il sequestro
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 25 Febbraio 2018, 20:35
È la storia infinita. Quarant’anni di inchieste, processi, dibattiti, commissioni, e mai che si possa scrivere, o sperare di arrivare a scrivere, la parola che tutto chiude perché tutto contiene, l’ultimo atto di un capitolo tragico e buio, il sipario che cala sulla lunga notte della Repubblica. Le convergenze parallele, il terrorismo, gli attentati, le stragi nell’Italia crocevia tra Patto Atlantico e Patto di Varsavia, punto di incontro tra Ovest ed Est. Dominio incontrastato dei democristiani fedeli agli Usa e area di azione del più forte schieramento comunista dell’Europa occidentale. Una partita a scacchi, giocata tutta sul filo del dialogo ma sottoposta alla ferocia della “strategia della tensione”. Sfociata infine nel compromesso storico, frutto di un’altra strategia, quella “dell’attenzione”, che - sfumato per un soffio l’ingresso del Pci nel governo per opposizione degli Stati Uniti - avrebbe portato i comunisti in maggioranza la mattina del 16 marzo 1978, giorno fissato per il varo in Parlamento del nuovo governo Andreotti. Il giorno in cui tutto accadde. Tragicamente.

Quarant’anni, tra pochi giorni. Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana e tessitore dell’intesa con il Pci di Enrico Berlinguer, fu sequestrato in via Fani, zona Monte Mario, a Roma. Uccisi i due carabinieri a bordo dell’auto su cui viaggiava, Oreste Leonardi e Domenico Ricci, e i tre poliziotti che seguivano di scorta, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Un’azione fulminea, dalle 9.02 alle 9.05. Novantuno i colpi esplosi con pistole e mitra. Cinquantacinque i giorni di prigionia. Poi, con la telefonata a uno degli assistenti di Moro, il cadavere dello statista democristiano, nato a Maglie, docente di Diritto penale prima a Bari e poi a Roma, fu fatto ritrovare nel bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata nel cuore della capitale, in via Caetani, tra via delle Botteghe Oscure, sede del Pci, e piazza del Gesù, sede della Dc. “Siamo le Brigate Rosse, adempiamo le ultime volontà del presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro”. Era il 9 maggio 1978. Quarant’anni. Mai che si arrivi al punto conclusivo.

Davvero mai? Giovanni Pellegrino apre la porta di casa, villa con parco alle porte di Lecce. Ha 79 anni, parlamentare prima con il Pci e poi con il Pds, presidente della Commissione bicamerale stragi dal 1996 al 2001. Ustica, Piazza Fontana, l’Italicus, la stazione di Bologna, il caso Moro... È appena rientrato da un mezzo giro d’Italia, udienze a Palermo e poi a Roma. Fare l’avvocato, nel suo caso amministrativista, più che passione o professione deve essere un vizio. «Comincio a sentire la fatica, però». Così per il pomeriggio invece di andare in studio fa venire lo studio da lui. Giacca da camera, pantofole. Pipa. Alle sue spalle la libreria colma di volumi, foto, ricordi. Gufetti di ogni dimensione e forma. Sulle pareti il riassunto in immagini dei suoi incontri con la storia d’Italia formato recente: presidenti della Repubblica, pontefici, capi di governo, leader massimi (o minimi). Con l’indice pressa nel fornello il tabacco trinciato. Accende. Il fumo avvolge lui e tutto intorno a lui. Atmosfera sulfurea, ottima per parlare di misteri veri o presunti. La lampada sulla scrivania irradia luce abbagliante su chi gli è di fronte. È il ribaltamento dell’onere della prova. Non diraderemo la nebbia, però proviamoci.

«Non ho mai avuto grande stima dell’intelligenza politica delle Brigate Rosse». Occhi chiari, sguardo vivace, ti viene da pensare che la sappia molto più lunga di quanto non dica. Lui giura di no. «Per non correre il rischio di dimenticare qualcosa ho messo tutto per iscritto, non solo nelle relazioni finali della Commissione ma anche in un libro». E cita “Segreto di Stato” (Einaudi, 2000). Parla senza staccare la pipa dalla bocca. «Colpiscono Aldo Moro non per quello che stava facendo, ma per quello che rappresentava in qualità di presidente della Democrazia Cristiana, emblema designato del fantomatico Stato imperialista delle multinazionali. Sequestrare Giulio Andreotti sarebbe stato molto più difficile: il capo del governo si muoveva nel centro di Roma, la logistica non avrebbe agevolato un’azione militare di quel tipo. Le Brigate Rosse perseguono per intero quello che è un loro disegno, senza l’intervento di altri: interrogano Moro secondo i loro rituali, lo processano in base al loro codice, lo condannano a morte. Dibattono solo sull’opportunità di eseguire la sentenza. Alla fine votano per l’uccisione. Fin qui nessun mistero. Quello che fa del caso Moro un vero e proprio affaire è questo: cosa succede dall’altra parte della barricata, nella politica e nell’apparato statale?». Ecco: che succede? «Il vero mistero è qui».

Mai, non si finirà mai. «Il sequestro apre una partita complessa che Francesco Cossiga, ministro dell’Interno, vive sulla sua pelle: trattare per salvare l’amico o, evitando di cedere ai ricatti, restare ancorati alla linea della fermezza per salvare lo Stato? Non solo: nella prima lettera che gli scrive dalla prigionia, recapitata dai brigatisti, Moro fa chiaramente intendere che può parlare e dire cose lesive per la Dc e per lo Stato. A questo punto si scatenano le intelligences del mondo intero: alcune, quelle dell’Alleanza atlantica, preoccupate per l’eventuale rivelazione di segreti di straordinaria importanza; altre, dell’area sovietica, interessate invece a saperli».

Nella relazione consegnata alle Camere, nel 1995, il concetto era stato espresso in termini ancor più sinistri dalla Commissione stragi: “Coagirono forze diverse che contribuirono all’avvitarsi della vicenda verso il suo tragico epilogo. Contribuirono cioè ad impedire che validi tentativi venissero posti in essere ed attuati perché Moro venisse salvato”. La trattativa ci fu? «Io ritengo di sì - risponde Pellegrino -. E lo so da fonte certa: l’ammiraglio Fulvio Martini mi raccontò che nei giorni del sequestro erano sparite dalla cassaforte del Ministero della Difesa le carte della pianificazione segreta “Stay Behind”, una struttura paramilitare della Nato che sarebbe entrata in azione in caso di invasione dello Stato italiano. Quelle carte erano poi ricomparse, altrettanto misteriosamente. Segno che erano entrate nella trattativa per la liberazione dell’ostaggio. Una trattativa arrivata quasi alla fine: lo si capisce da un’altra lettera di Moro, dove il presidente della Dc, dopo aver sferrato un attacco diretto tanto ad Andreotti quanto a Berlinguer, si impegna a dimettersi dal partito, a entrare nel gruppo misto e a non ricandidarsi, libero - scrive - “per unilaterale generosità delle Brigate Rosse”. A quel punto è chiaro che Moro sarebbe diventato una mina vagante, sì che Cossiga - in caso di scarcerazione - prevede un piano per la gestione del rientro del suo amico e collega di partito nell’agone politico e sociale: per quindici giorni il presidente democristiano sarebbe stato sottratto a tutti, alla famiglia e ai magistrati. La morte di Moro, alla fine, annulla il pericolo di fuga di notizie riservate e disinnesca il rischio di successivi interventi destabilizzanti per le istituzioni nazionali e internazionali. C’era un evidente interesse politico, in alcuni ambienti: il suo sacrificio avrebbe giovato alla Patria. Quanto alle Brigate Rosse, l’errore è stato non incidere subito sull’area di contiguità che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, investito di poteri straordinari, riuscirà poi a penetrare per disarticolare dall’interno la struttura. Una vasta zona grigia alimentata dagli intellettuali, dal sindacato e dall’industria. Su questo si sono pagati prezzi altissimi in termini di impunità. Ci sono cose che non si possono dire. E che la magistratura, evidentemente, non vuole scoprire».

Mai. La verità, tutta la verità, nient’altro che la verità probabilmente rimarrà formula difficile da colmare di significato. Resta il sacrificio dello statista, resta la sconfitta delle Brigate Rosse. E resta un vuoto. Le volute di fumo circolano liberamente e caricano di suggestione il momento. «Oggi si sente tutta la mancanza di un uomo intelligente e di larghe vedute come Aldo Moro. Era un politico dal pensiero lungo, dalle trame sofisticate. La politica dei nostri giorni risente del predominio delle idee di corto respiro, delle strategie di breve periodo. Moro aveva capito che l’Italia degli anni Sessanta e Settanta poteva vivere solo di equilibri dinamici. Il suo obiettivo era spostare sempre in avanti il baricentro. Altrimenti, come una trottola alla fine dei giri su se stessa, sarebbe collassata. Ed è quello che puntualmente è successo quando la Dc di Forlani e il Psi di Craxi hanno creduto di essere il punto di stabilità del sistema. Nessuno volle ascoltare Cossiga quando, ormai presidente della Repubblica, iniziò a picconare a destra e a sinistra, sollecitando la “grande confessione e la grande riforma”, alludendo al sistema di finanziamento dei partiti, da tutti noto come illecito. Così la prima Repubblica, figlia della Guerra fredda, cede di schianto sotto i colpi di Tangentopoli poco dopo il crollo del Muro di Berlino».

Il vialetto del parco che porta al cancello si illumina. Giovanni Pellegrino fa strada verso l’uscita. Fuori s’è fatto buio. Compensano le idee, di certo ora più chiare. Il fumo, quello te lo porti appresso anche se non vuoi. Assieme a un convincimento: il senatore ne sa più di quanto non dica. Lui deve capirlo dallo sguardo: «Ti farò avere “Segreto di Stato”». Vuoi o non vuoi, sempre misteri sono.



 
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