Polito: «Nessuno parla più di futuro, ma non si vive di nostalgie»

Polito: «Nessuno parla più di futuro, ma non si vive di nostalgie»
di Francesco G. GIOFFREDI
7 Minuti di Lettura
Domenica 21 Ottobre 2018, 20:27
Il tempo, per esempio: forse è cambiato persino il tempo, il suo lento o incalzante fluire, la percezione del passato e la proiezione sul futuro. Aggrappati al primo, e un po' troppo allergici al secondo. Eppure le terrene resurrezioni, che parlano il linguaggio del futuro, dovrebbero essere aspirazione di tutti. Nel privato, nella vita di ogni giorno; e nel pubblico, nella politica, nel racconto di un Paese che non sa più progettare futuro. Antonio Polito è tra i più noti commentatori politici, firma del Corriere della Sera, vicedirettore in via Solferino e in precedenza anche a Repubblica: da pochi giorni è in libreria Prove tecniche di resurrezione - come riprendersi la propria vita, un decalogo per chi affronta il quarto quarto, quello che s'inaugura con i sessant'anni. Futuro, insomma. La stessa materia prima di cui è sprovvista la politica, oggi.

Gramellini ha scritto che il suo libro è un manuale di istruzioni di volo: nel quarto quarto si aprono le ali, seppur con coordinate nuove.
«Il libro tenta di descrivere la sorpresa, lo sconcerto e la disperazione che possono prendere quando la vita sembra perdere di senso. Può accadere per varie ragioni, ma di sicuro capita quando subentra quel gran cambiamento che è il passaggio di età, dalla vita adulta vissuta correndo a una fase diversa. Ed è un cambiamento che vedi in faccia, all'improvviso, che ti salta addosso e non si accumula nel tempo. Il libro è la descrizione dei pensieri indotti in me da questa nuova situazione, in cui non è più possibile proseguire nella vita di prima, devi rinascere, risorgere, infatti nel libro propongo di non attardarsi nel tentativo di recuperare ciò che si era precedentemente».

Cosa c'è nel decalogo?
«Innanzitutto la necessità di ragionare, di riflettere sulla fine, su cosa vuoi che accada quando non ci sei più. Poi c'è l'invito a restare umani, a non accanirsi nel cercare di trasfigurare se stessi solo per provare a restare giovani nell'aspetto. Quindi c'è il fare pulizia: un lavoro lento e importantissimo, cioè buttare le cose superflue, inutili e imparare a selezionare. Vale anche per le idee: ho passato la vita guidato da ideali progressisti, ma a volte bisogna saper diventare anche conservatori».

Invita anche a privilegiare il silenzio alle tante parole evitabili che pronunciamo durante il giorno. Una missione impossibile nell'epoca della bulimia social.
«Ho avuto una grandissima fiducia nelle parole, per tutta la vita, convinto che potessero contribuire a stabilire rapporti di comprensione reciproca. Ma ormai le parole non sembrano più sufficienti, sono anzi diventate occasioni di scontro e odio. Il punto è che ciascuno attribuisce un valore diverso alle parole: è come se fossimo in una specie di Babele».

Ma col suo decalogo non smonta, in fondo, la retorica del ricordo?
«Se si tratta di resurrezione, si nasce da zero: il passato non è la nostra vita. Contesto infatti chi sostiene che la vecchiaia sia solo ricordare. Peraltro, grazie al digitale, quando invecchieremo saremo la prima generazione a poter dimenticare, perché tutto verrà archiviato nella grande memoria cloud: possiamo insomma imparare e disimparare di continuo, come se fosse una riformattazione costante».

Concetti che possiamo proiettare anche sulla scena pubblica? Siamo un Paese preda ormai del passatismo, o al massimo di un eterno presente? La politica non sa più indicare rotte di lungo respiro.
«Nei programmi elettorali la parola futuro non c'è più, come se uno dei doveri della politica non fosse costruire proprio il futuro. Anzi: Lega e M5s si sono affermati per la ragione opposta, cioè assecondando la nostalgia del passato. Il ritorno della leva obbligatoria, le chiusure domenicali, la serie A senza stranieri, le baby pensioni, le partecipazioni statali: simboli di un Paese che questi anni di crisi hanno fatto sembrare un bengodi, la dimensione in cui si riusciva a vivere in condizioni diverse».

Peraltro è crollato lo schema su cui poggiava il patto sociale della crescita e della promessa di futuro: qualche sacrificio in funzione di maggiori opportunità per tutti, soprattutto per figli e nipoti.
«È un concetto che ho espresso più volte. Il mondo antico a cui facevo riferimento in precedenza è finito con la caduta del muro di Berlino, con la nascita dell'Unione europea, insomma quando è cambiato tutto. In quella fase abbiamo avuto classi dirigenti che avevano fatto una promessa al Paese: portare cambiamenti nella prospettiva di un nuovo mondo, perché il vecchio non regge più. Al governo Prodi riuscì persino di far pagare l'eurotassa - poi restituita - agli italiani, tutti incredibilmente contenti di farlo. Questa economia delle opportunità è stata conosciuta da altri Paesi, salvo poi finire anche in quelle realtà con l'arrivo della recessione. È una fase che invece noi non abbiamo mai vissuto, così la grande promessa si è inaridita: un'intera generazione ha percepito tutto ciò come un tradimento e dà la colpa proprio ai cambiamenti di inizio anni 90».

L'economia delle opportunità è in fondo il paradigma del Pd renziano: punito per questo, il 4 marzo?
«Puntare su quel paradigma è stato un errore tragico di Renzi. Erano operazioni che funzionavano negli anni 90, negli Usa o in Inghilterra con Blair, ma all'epoca c'era la crescita, esplodeva la new economy che effettivamente produceva benessere e posti di lavoro. In Italia questa strada è stata tentata da Renzi quando ormai s'era abbattuta la grande crisi e la situazione sociale del Paese era completamente diversa. Renzi parlava di ottimismo, di fiducia, ma nessuno gli credeva più. Non a caso il Pd ne è uscito distrutto».

La politica italiana sembra concentrata solo sugli strumenti, disinteressandosi dei fini di lungo periodo. Strumenti in molti casi episodici, occasionali, battaglie che 24 ore dopo magari non ci sono già più. Perché?
«Succede quando non hai un modello di società. Anche se in realtà i cinque stelle un modello ce l'hanno ed è quasi anticapitalistico, di decrescita felice. Se comunque sei sguarnito di un modello adatto alla fase, allora prevalgono le scelte compiute caso per caso: un poco di sussidio ai giovani disoccupati, gli anziani in pensione qualche anno prima. Si tratta di scambi, fondati sulla spesa pubblica corrente, che non costruiscono investimenti, sviluppo e crescita, ma soltanto redistribuzione. È questa la vera e principale critica che andrebbe mossa alla manovra del governo».

Questo governo però, anche con quella episodicità di temi e battaglie, detta l'agenda alle opposizioni e al Paese.
«In genere è chi governa a dettare l'agenda. Però è vero: con questo governo l'agenda poggia su norme manifesto per attirare l'interesse pubblico, non su riforme di lungo respiro. Del resto assistiamo a Consigli dei ministri che si concludono con l'annuncio di decreti che nemmeno ci sono e che arriveranno magari 15 giorni dopo».

M5s e Lega hanno costruito una vera egemonia culturale?
«Nel voto del 4 marzo si sono concentrate due diverse pulsioni. Da una parte il bisogno generalizzato di sicurezza e protezione, che si manifesta in vari modi: le frontiere, i limiti al mercato, il protezionismo. Un bisogno enorme soddisfatto dalla Lega, che così interpreta le principali idee dell'opinione pubblica. L'altra pulsione è il rancore: la lunga fase della crisi ha prodotto rancore verso l'establishment, le elite, la casta, ma anche solo verso chi guadagna di più o ne sa di più. E questo secondo filone, quello del rancore, appartiene ai cinque stelle. Ma in questo caso non parlerei di egemonia culturale: non puoi usare il rancore come asse di egemonia perché non è possibile governare e legiferare in nome del cittadino senza danneggiarne un altro. Per questo ritengo il consenso per i cinque stelle più viscerale, frutto di una ondata sentimentale».

Il giornalismo italiano negli ultimi anni ha involontariamente alimentato il populismo, come qualcuno sostiene? La beffa è che i giornali sono bollati come elite, in senso dispregiativo.
«È un errore presumere che se i media fossero stati silenti o complici col potere di prima, il potere di oggi sarebbe migliore. I mass media dovrebbero essere sempre critici col potere. Se i giornali sono descritti come élite in parte è perché c'è stata una cinica operazione del nuovo potere, paragonabile a quella portata avanti nei confronti di soggetti come Bankitalia, all'insegna del fatti eleggere se vuoi criticare, affermazione che in democrazia non vuol dire nulla. Ma in altra misura il giornalismo ha commesso l'errore di non aver criticato abbastanza».

La politica vive di cicli, spesso talmente tumultuosi da essere rapidissimi: stagioni e leader si consumano in un attimo. La fase che stiamo vivendo durerà a lungo?
«Penso che l'attuale assetto sia di transizione. Ma questo non vuol dire necessariamente essere ottimisti, anzi: quando vedo e ascolto per esempio il brasiliano Bolsonaro o il filippino Duterte, mi domando inorridito se la nostra discesa agli inferi è davvero finita».


 
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