Il Papa: «Salento arca di pace, don Tonino profeta di speranza»

Il Papa: «Salento arca di pace, don Tonino profeta di speranza»
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 22 Aprile 2018, 20:33
Bisogna vivere la notte per capire l’alba. Immergersi nel buio e aspettare. Sprofondare nel silenzio, fino all’ultimo scorcio concesso al tempo del riposo e alla quiete, l’attimo magico oltre il quale la vita si rimette in cammino, quando i primi bagliori a est annunciano l’arrivo del sole e del nuovo giorno. E qui ad Alessano, dalla spianata scelta per l’incontro dei fedeli col Papa, e del Papa con don Tonino, lo spettacolo unico e irripetibile è nell’alba che s’illumina alle spalle del cimitero. Proprio dietro la tomba del vescovo fatto Vangelo, morto a Molfetta, sede del suo mandato episcopale, e seppellito qui, accanto alla madre, a poca distanza dal padre, qui dove tutto è cominciato, il 18 marzo 1935, a cavallo di due guerre, lui costruttore di pace. Così voleva e così è stato. Bisogna vivere la notte per apprezzare l’alba. In questa ricorrenza del 20 aprile, a venticinque anni esatti dalla morte, un’alba radiosa. Intensa. Profonda. Ventilata quanto basta per scuotere senza sconvolgere. Oggi che si compie una profezia. Anzi due.

La veglia di preghiera scandisce le ore della vigilia. Dalla piazza al piazzale chi ha voluto, chi ha resistito. D’un fiato dalla notte al giorno. Gli altri arrivano al buio, prima alla spicciolata, poi in file ordinate quando ormai la luce inonda i minuti che mancano. L’attesa vibra nelle parole di don Luigi Ciotti, nei canti del coro, nei boati fragorosi che lo speaker don Stefano Ancora, generoso in voce e in entusiasmo, prova per l’arrivo del Papa. Si attendevano 20mila fedeli, alla fine saranno 23mila. Il pontefice atterra con apprezzabile ritardo, diciassette minuti per l’esattezza, alle 8,47, una corsa contro il tempo che lo porterà ad arrivare poi a Molfetta tre quarti d’ora oltre il previsto, con tagli al programma prima e dopo la messa, fissata per le 10,30 sul molo della cittadina barese. Benvenuto Francesco, gli urla la folla quando l’elicottero si posa accanto al cimitero. Poi il silenzio avvolge la spianata, i presenti, tutto. Accompagnato da monsignor Vito Angiuli, vescovo di Ugento, Jorge Mario Bergoglio varca la soglia del camposanto. Un mazzo di fiori in mano. Si dirige verso la sepoltura di don Tonino. Cinque minuti di raccoglimento. Silenzio.

«La sua tomba non si innalza monumentale verso l’alto, ma è tutta piantata nella terra», dice poi ai fedeli. «Don Tonino, seminato nella sua terra, sembra volerci dire quanto ha amato questo territorio, i poveri, gli umili». La gente lì davanti, le autorità, i disabili, i pellegrini, tutti aspettano di ascoltare una parola che spalanchi le porte alla speranza: il processo di canonizzazione è avviato, per la gente don Tonino è già santo, per la Chiesa ancora no. Il percorso per assurgere all’onore degli altari ha le sue tappe obbligate. Papa Bergoglio non concede fughe in avanti, ma pronuncia parole precise. E gli applausi incastonano i passaggi chiave. Così il pontefice, prima di santificare il vescovo della pace, beatifica un intero territorio.

A presentargli l’uno e l’altro, monsignor Angiuli. Che prima strizza l’occhio all’ottimismo: «Anche monsignor Angelo Magagnoli, rettore del seminario dell’Onarmo di Bologna, era convinto di quanto don Tonino fosse stato “strumento docile per scuotere dal torpore tanti cristiani”. Per aggiungere: “Non mi meraviglierei se domani la Chiesa lo dichiarasse santo”. Non ce ne meravigliamo nemmeno noi. Anzi, lo auspichiamo ardentemente». Applausi. E poi traccia il destino di un intero territorio, il prelato di Ugento, appellandosi ancora alla speranza: «La “convivialità delle differenze” è stato il programma di vita perseguito instancabilmente da don Tonino Bello. Ed è anche l’esortazione che Lei continuamente ci rivolge. Seguendo i Suoi insegnamenti, abbiamo compreso meglio la specifica vocazione della nostra Chiesa e dell’intero territorio del Salento: essere un ponte di fraternità nel Mediterraneo. Nei Suoi gesti, Santità, ci pare di intravedere l’esempio di don Tonino. È la speranza che ci sostiene nell’affrontare alcuni gravi problemi del territorio: il flagello della xylella; il ricorrente tentativo di deturpare il nostro mare; la precarietà e la mancanza di lavoro».

La strada è spianata. Papa Francesco indica la direzione. Dopo lo zucchetto vescovile vola anche la papalina. Il vento soffia su tutti. «Don Tonino non stava con le mani in mano», spiega Bergoglio. Il velluto argentino su cui scivola lieve l’eloquio non toglie nulla alla gravità delle parole, che chiamano all’azione. Al coraggio. Nell’omelia di Molfetta ritornerà sul punto con i versi della prima lettura: «Gesù risorto si rivolge a Saulo e gli dice: “Alzati”. La prima cosa da evitare è rimanere a terra, subire la vita, restare attanagliati dalla paura. Quante volte don Tonino ripeteva: “In piedi!”. Anche a ciascuno di noi il Signore dice: “Va’, non rimanere chiuso nei tuoi spazi rassicuranti, rischia!”. “Rischia!”».

Ad Alessano il discorso è tagliato a misura delle parole e dei gesti di un profeta scomodo, servito su piatto d’argento per i fedeli in attesa: «Don Tonino agiva localmente per seminare pace globalmente, nella convinzione che il miglior modo per prevenire la violenza e ogni genere di guerre è prendersi cura dei bisognosi e promuovere la giustizia. Se la guerra genera povertà, anche la povertà genera guerra. La pace, perciò, si costruisce a cominciare dalle case, dalle strade, dalle botteghe». Eccola la canonizzazione: «La vocazione di pace appartiene a questa meravigliosa terra di frontiera – finis terrae – che don Tonino chiamava “terra-finestra”, perché dal Sud dell’Italia si spalanca ai tanti Sud del mondo. Siete una “finestra aperta da cui osservare tutte le povertà che incombono sulla storia”, ma siete soprattutto una finestra di speranza perché il Mediterraneo, storico bacino di civiltà, non sia mai un arco di guerra teso ma un’arca di pace». Ecco la beatificazione annunciata: «In ogni epoca il Signore mette sul cammino della Chiesa dei testimoni che incarnano il buon annuncio di Pasqua, profeti di speranza per l’avvenire di tutti. Dalla vostra terra Dio ne ha fatto sorgere uno, come dono e profezia per i nostri tempi. E Dio desidera che il suo dono sia accolto, che la sua profezia sia attuata». Non poteva dire beato. Non poteva dire santo. Chi ha orecchi per intendere, però, intenda. Il Vangelo è lì a ricordarlo.

Il Papa benedice, saluta e si incammina verso l’uscita. Lo speaker generoso guida la folla: “Grazie, Francesco”. La profezia si è avverata. La doppia profezia. La racconta il nipote di don Tonino, Stefano Bello. Assicura sia così. Come metterlo in dubbio? E poi, perché? In famiglia lo sanno. Si raccolgono riscontri e testimonianze. La Congregazione delle cause dei Santi attende. La prima profezia è legata a un viaggio dello zio a Roma: 1982, subito dopo la nomina alla diocesi di Molfetta, il vescovo salentino si reca in visita da papa Wojtyla. “Sono venuto a trovare Pietro”, gli dice. “Un giorno sarà Pietro a venire da te”, la risposta. Trentasette anni di attesa: se non Pietro, il successore. La seconda, qualche anno più tardi: novembre 1992, Molfetta gli assegna il Sigillo d’onore per il decimo anno d’episcopato. Davanti al Consiglio riunito, l’annuncio a sorpresa di don Tonino: «Per il 25° sarò io a conferire alla città una onorificenza». Pochi mesi dopo, la morte. Ognuno lo interpreti come vuole: nel novembre 2007, venticinque anni dopo l’ingresso a Molfetta, il nulla osta per la causa di beatificazione e ora, a venticinque anni dalla morte, l’arrivo del Papa. Forse erano battute di spirito, qui dove lo Spirito regna sovrano. O forse no. Il destino si diverte. Per chi crede, anche Dio si diverte. Molto.

“Grazie, Francesco”. L’elicottero ha acceso i rotori. La caddie-car scalda i motori: porterà l’ospite più illustre dalla spianata al velivolo. Il Papa sta per salire, un ragazzo oltre le transenne lo chiama a gran voce. Bergoglio lo vede, capisce il problema, gli fa cenno con la mano. Il giovane, affetto da sindrome di Down, non se lo fa ripetere: scavalca con un balzo la recinzione, supera la security e si fionda tra le braccia del pontefice. Si stringono. Poi Bergoglio prende una croce in legno di ulivo e gliene fa dono. Si può misurare la gioia? «Il nome di don Tonino - aveva detto poco prima - spiega anche la sua salutare allergia verso i titoli e gli onori, il suo desiderio di privarsi di qualcosa per essere Chiesa del “grembiule”, il suo coraggio di liberarsi dei segni del potere per dare spazio al potere dei segni».

Torni a trovarci, caro Papa.


 
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