La vedova di uno dei due finanzieri uccisi nel 2000 a Brindisi: «Quella notte, quel maledetto citofono...»

Danila Fiusco
Danila Fiusco
di Tea SISTO
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Giovedì 22 Febbraio 2018, 19:05
«Quell’ultimo pomeriggio della sua vita, del 23 febbraio del 2000, Tony si stava rivestendo velocemente. Nessuno lo chiamava Antonio. Per me, sua moglie, per tutti i suoi amici è sempre stato Tony, il nostro Tony. Stava indossando la divisa e incartando un panino, la sua cena. Temeva di fare tardi e lui odiava non essere puntale. Amava quel lavoro. Doveva prendere servizio alle 18. Mi diede il solito bacio di saluto. “Ci vediamo più tardi”. Una frase che mi ripeteva sempre prima di andar via verso le sue imprese di ordinaria giustizia. Imprese, in verità, di straordinario impegno contro la criminalità. “La piccolina mia”, mi chiamava così. Sì, l’ho baciato anche quel pomeriggio, ma sentivo un peso dentro di me, qualcosa di diverso della preoccupazione che provavo quotidianamente quando usciva di casa per fare il suo dovere. Una sensazione brutta, che non so descrivere, che può capire, solo e forse, chi ama. Anche lui mi sembrava, in quel periodo, carico di tensione. Faceva un freddo terribile quel pomeriggio e lui sarebbe stato impegnato sulle strade sino a notte fonda».
Inizia così il suo racconto di quella notte di orrore e di disperazione, Danila Fiusco, vedova da 18 anni del finanziere scelto Antonio Sottile, ucciso, assieme al vicebrigadiere Alberto De Falco, originario di Catanzaro, in uno scontro voluto da contrabbandieri di sigarette a bordo di un blindato (una Range Rover) che si scagliò con l’acceleratore schiacciato a tavoletta contro la loro auto di servizio, una vecchia e fragile Punto. Un attacco impari, un mostro a quattro ruote contro un’utilitaria. Tony aveva 29 anni, Alberto 33, poco più che ragazzi.
Che cosa accadde, Danila. Come seppe della tragedia?
«Non andai a letto subito quella sera. Ero inquieta. Mi stesi intorno alle 23,30 e, finalmente, mi addormentai. Poi il sobbalzo. Lo squillo del citofono. Era passata da mezz’ora l’una di notte. Con in cuore in gola, mi alzai, risposi ed aprii il portone. Erano colleghi di Tony. Non volevano spaventarmi. Mi dissero che c’era stato un incidente, che Tony era stato sottoposto a una Tac. Ma l’espressione dei loro occhi mi aveva già detto quasi tutto. Mi chiesero gentilmente di cambiarmi, perché dovevamo andare in ospedale, di corsa. “Dacci anche il numero di tuo fratello”, mi dissero. Non volevano che rimanessi sola».
È molto doloroso e straziante, lo so. Ma riesce a raccontare che cosa accadde in ospedale?
«Non scorderò mai quei momenti, quei minuti, quelle ore, ma raccontare è difficile. Ci provo. Arrivammo nell’ospedale Perrino, che era stato inaugurato da poco tempo. Era pieno di forze dell’ordine. Uomini in divisa ovunque. Brutto segno. C’era la moglie di Edoardo Roscica, con la testa tra le mani, in sala d’aspetto. Non vidi i familiari di Sandro Marras, ero troppo sconvolta. Edoardo e Sandro erano colleghi di mio marito e quella sera erano di pattuglia con lui, seduti sul sedile posteriore della Polo. Correvo tra i corridoi, non riuscivo fermarmi. Volevo sapere se Tony fosse vivo. Urlavo di disperazione. Volevo vederlo subito. Mi sembrava di vivere una scena di un film terribile. Fecero entrare me e Carmela De Falco, moglie di Alberto, in una stanzetta, con un medico. Tony era coperto da un telo verde. Sollevarono il telo. Il volto del mio Tony era irriconoscibile. Impossibile spiegare quello che provai… sgomento, disperazione, strazio, la sensazione del mondo che mi crollava addosso».
Terribile. Poi ci fu l’ultimo saluto a suo marito, i funerali solenni in Cattedrale, con istituzioni, forze dell’ordine, cittadini che parteciparono in massa.
«Sì. Io sfilavo distrutta, ma non mi guardavo intorno. In seguito mi dissero che molti negozianti, al passaggio del corteo funebre, avevano abbassato le saracinesche in segno di rispetto per il coraggio di Tony e degli altri finanzieri. Ma mi raccontarono anche che alcuni contrabbandieri si permisero di minacciarli affinché riaprissero quelle saracinesche. Furono persone normali, semplici cittadini a intervenire, a sostenere i commercianti. E le saracinesche, alla fine, rimasero abbassate».
E poi?
«E poi fu l’inferno. Lasciai la casa nella quale vivevo con Tony e mi trasferii per un anno in quella di mio fratello per non restare sola. Ma non mi bastò a metabolizzare il lutto e non riuscii ad essere presente al processo contro i suoi assassini».
Se la sente di parlare, a distanza di 18 anni dalla tragedia, di Tony, di come vi siete conosciuti, della vostra vita insieme?
«Tony era nato ad Alife, in provincia di Caserta, il 15 febbraio del 1971, ma la famiglia si trasferì a Treviso. Era figlio unico ed era rimasto orfano di madre da piccolissimo. A 20 anni fece il concorso nella Guardia di Finanza, lo vinse e frequentò la scuola di Rovigo. L’esodo degli albanesi lo portò a Brindisi. Si impegnò tantissimo, ma avemmo l’occasione di conoscerci e di fidanzarci. Era legatissimo a me, a tutta la mia famiglia e soprattutto a mia madre, che ho perso, purtroppo, da poco. Lui era un’esplosione di vitalità, allegro, estroverso, amava la musica e, a casa, ho ancora 200 suoi cd. Tolta la divisa, vestiva in modo sportivo, jeans, maglioni, tute. Gli piaceva pescare con la canna a Punta Riso, amava il basket e aveva anche giocato. Era un ragazzo coraggioso, non ha mai dimostrato di aver paura per il suo lavoro. Aveva partecipato a operazioni rischiose e decisive, anche sotto copertura. E, soprattutto, era leale, onesto, non scendeva a compromessi. Mai. Nel lavoro, la sua disponibilità era 24 ore su 24. Mi affascinò e mi innamorai subito. Ci sposammo nel 1995 e ci concedemmo un viaggio di nozze alle Canarie. Avevamo preso in affitto una casa alla Minnuta, nello stesso palazzo nel quale abitava il suo collega e amico carissimo Edoardo Roscica».
Eravate giovani. Quali progetti avevate insieme prima che la sua vita fosse spezzata?
«Avevamo deciso di acquistare, con il mutuo ovviamente, una casa tutta per noi e avevamo scelto un appartamento indipendente nel quartiere Cappuccini, con una cameretta per un figlio che volevamo avere. Poche settimane prima della tragedia, avevamo firmato il compromesso. Eravamo pronti al trasloco. Un sogno di vita serena e felice spezzato quella notte».
Oggi, Danila?
«La vita non può che andare avanti. Non ho figli, ma vado avanti. L’amicizia con Sandro Marras e con Edoardo Roscica e le loro famiglie è sempre molto salda. Sono in contatto con la vedova di Alberto, tornata in Calabria. Partecipo ogni anno alla cerimonia della Guardia di Finanza a Jaddico nell’anniversario della morte di Tony e di Alberto. Sono orgogliosa del mio Tony, perché il suo sacrificio e quello di Alberto hanno dato vita all’“Operazione Primavera” che ha fatto piazza pulita del contrabbando e non solo. Era quello che volevano, ma hanno pagato un prezzo pieno per tutto questo. Sì, la vita deve andare avanti. Ma io, Danila Fiusco, resterò sempre la moglie di Tony Sottile»
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