La figlia di Moro e l’ex Br: incontro a scuola per capire

La figlia di Moro e l’ex Br: incontro a scuola per capire
di Tea SISTO
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 17 Maggio 2017, 12:28 - Ultimo aggiornamento: 12:30

“Comprendere non vuol dire scusare, perdonare. Ma la sorpresa è scoprire che c’è un dolore loro, di chi ha fatto qualcosa di tremendo che non potrà mai condividere. Ecco: il dolore è stato il ponte tra noi”. Erano ieri mattina una accanto all’altra, davanti a centinaia di studenti del Liceo scientifico Ribezzo di Francavilla Fontana, Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, e Adriana Faranda, ex militante delle Brigate Rosse. Che ci facevano insieme la figlia di una vittima, la più illustre, degli anni di piombo, e l’ex “terrorista”? “Loro non sopportavano di essere definiti terroristi”, continua Agnese. “Del resto, ormai siamo due vecchie signore”. Erano lì, insieme, per raccontarsi dopo un percorso lungo, che riguarda altre vittime e altri carnefici. Un percorso definito “giustizia riparativa” che prevede l’obbligo, per l’autore del reato, di rimediare a ciò che ha fatto. Anche quando l’impresa è impossibile, quando niente potrebbe più rimediare. Il senso di questo progetto è stato spiegato dal preside del liceo, Vincenzo Sportillo, da Mario Dabbicco, referente regionale di Libera contro le mafie, e da Davide Varasi, della comunità Bose nell’ambito dell’incontro voluto dal Comitato culturale de “Il Ribezzo incontra”, collegio paritetico composto da docenti e studenti.
Agnese e Adriana vengono da questo cammino intimo raccontato nel “Libro dell’incontro”. L’argomento dei danni fatti dalla Brigate rosse all’Italia intera, alla politica, ai movimenti per la giustizia sociale dei giovani, che le armi non le avevano e non le volevano avere, non è stato sfiorato. Era altro il tema: era l’incontro tra due persone unite da una tragedia. “Vi chiederete, perché mai una persona come me, che ha subito un torto gravissimo, la perdita del padre, deve parlare con un’altra persona, Adriana, che militava con chi le ha fatto quel torto. Ebbene, l’ho fatto per me”.

 

Agnese Moro ripercorre quella tragedia. “Una mattina del marzo del 1978 mio padre uscì di casa per fare le tante cose che doveva, assieme alla sua scorta: votare la fiducia al governo, insegnare ai suoi studenti”, racconta. “Uccisero tutti gli uomini della sua scorta, che per me erano quasi dei parenti. Portarono via mio padre. Già quel sequestro fu una ferita profonda nella mia vita, un danno irreparabile. E poi fu abbandonato al suo destino dal suo stesso partito, sino a quando non fu ritrovato morto il 9 maggio di quello stesso anno”. “Provai odio, rabbia, rancore, disgusto, voglia di giustizia che, poi, nel nostro caso arrivò”, continua Agnese. “Dovrei stare meglio, mi dissi. Ma non è mai accaduto. Non c’era alcuna possibilità di riparare. E allora vai avanti nella tua vita, ma ogni giorno ti svegli con lo stesso incubo: il sequestro e l’omicidio di tuo padre. Ogni giorno. È la dittatura del passato sul presente e sul futuro. Rimani con le tue ferite e nessuno se ne accorge e tu non puoi raccontarle. Resti muta. Ma poi accade che qualcuno, le persone che ti vivono accanto, la tua famiglia, lo sente quell’urlo. Allora comprendi che o fai qualcosa o le persone che ami rivivranno lo stesso tuo incubo. Dici basta, la cosa finisce qua perché non devi trasmettere odio. Una piccola porta si apre sul mondo”.
Agnese Moro racconta di aver aderito a questo difficile percorso. “Non è facile affatto”, spiega. “E’ un cammino doloroso. Tu puoi fare le domande e chiedere perché mio padre, e che padre, che uomo. Chiedi perché hai letto solo 15 anni dopo la sua morte le lettere d’addio che ti aveva indirizzato. Ascolti risposte che sono ancora più dolorose. L’incontro spesso si trasforma in scontro. Ci hanno portato tutti in montagna insieme, noi familiari delle vittime e loro, gli ex brigatisti. Convivenza non sempre sopportabile. Poi inizi a dialogare, con fatica. Scopri il dolore loro, l’irreparabilità di ciò che hanno fatto, ti ritrovi davanti l’ex brigatista in carcere che chiede un permesso per andare ai colloqui scolastici di suo figlio. Scopri che esiste l’uomo. Arrivano il rispetto e persino l’affetto. Mio padre è stato sequestrato e ucciso per ciò che rappresentava agli occhi delle Brigate Rosse. Non hanno ucciso la persona”.
“Adoro Agnese, starei ad ascoltarla per ore”, interviene Adriana Faranda, lei che, con Valerio Morucci, sino all’ultimo aveva tentato di convincere gli altri br a non uccidere Aldo Moro. “Ero giovane, arrabbiata contro le ingiustizie sociali e mi feci affascinare. Ho peccato di mancanza di immaginazione, di non aver individuato per tempo strade alternative alla violenza. Qualsiasi codice etico, nelle Brigate rosse, era stato spazzato via. Ci eravamo convinti di rappresentare il bene e quindi di poterci permetterci di tutto, anche di uccidere. Il sequestro Moro mi fece capire il livello di disumanizzazione che avevamo raggiunto. Mi battei, inutilmente, affinché non fosse ucciso. Ammazzare un prigioniero impotente e disarmato non si può, dicevo. Fu una lunga agonia per tutti. Ho scontato 15 anni in carcere, ma mi ero ormai dissociata da tempo dalla lotta armata. Qualcosa comunque mi mancava. Dovevo cercare di ricucire la lacerazione che si era prodotta in me. Mi chiedevo se potevamo essere d’aiuto ai familiari delle vittime. Per quanto mi riguarda, Agnese avrebbe tranquillamente potuto prendermi a schiaffi, insultarmi, buttarmi addosso l’odio e tutto il suo dolore se solo questo le avesse dato un minimo di sollievo. Perché sappiamo che la giustizia tradizionale non basta a far rimarginare ferite profonde”.
Ieri Agnese e Adriana erano di nuovo insieme, hanno riso e scherzato, come vecchie amiche. “Se ci siamo riuscite noi….”, dice Agnese. Nel pubblico di giovanissimi e meno giovani resta una sensazione agrodolce, per molti non definibile. Risposte a tutte le domande che ci poniamo non ne abbiamo, spunti per riflettere, un’infinità.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA