Carofiglio, l'investigatore Fenoglio e la ricerca della verità

Carofiglio, l'investigatore Fenoglio e la ricerca della verità
di Claudia PRESICCE
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Venerdì 1 Marzo 2019, 21:49 - Ultimo aggiornamento: 2 Marzo, 13:22
La versione di Gianrico Carofiglio è una narrativa di investigazione. Piuttosto che parlare di genere giallo, poliziesco, noir, molti suoi romanzi, quelli ad esempio che raccontano le storie del maresciallo Pietro Fenoglio, parlano di sete di conoscenza, di ricerca di verità. E arrivano a puntare uno scalpello ficcante sulle cose, scavando molto più in profondità di quanto ci si aspetti, spingendosi nel sottobosco filosofico delle domande più importanti dell'uomo. Così, "La versione di Fenoglio" (Einaudi), l'ultima fatica letteraria dello scrittore ex magistrato barese, è latrice di una storia di passione, potente. È quella per l'arte di investigare, di capire il come e il perché delle cose, partendo però dall'idea (quasi sterilizzante) che la verità sia sempre un concetto sfuggente.

Carofiglio cominciamo dal titolo: "La versione di Fenoglio" è un omaggio a "La versione di Barney", oppure no?

«In realtà non è stata una scelta deliberata, non l'ho pensato consapevolmente, mi è venuto in mente questo riferimento solo quando già il libro era scritto e finito. Perché si chiami così si capisce leggendo, ma se c'è qualche somiglianza forse è l'impostazione rispetto allo schema di "La versione di Barney", come dire le cose come le racconta lui. Ad un certo punto è esplicito il senso, quando Fenoglio si domanda quanto le cose che raccontiamo su noi stessi siano attendibili e quanto non siano piuttosto un tentativo di adeguare quello che è successo all'immagine che abbiamo di noi».

Veniamo ai protagonisti. In quale momento della vita ritroviamo Pietro Fenoglio, il maresciallo dei carabinieri piemontese trapiantato al Sud che abbiamo incontrato in altri due suoi precedenti romanzi?

«La storia è collocata molto avanti, quando Fenoglio è ormai vicino alla pensione, mentre negli altri libri aveva poco più di 40 anni. Sta facendo fisioterapia dopo un intervento ortopedico e in quella circostanza conosce un ragazzo, molto più giovane di lui, che per motivi analoghi frequenta lo stesso centro. È Giulio, ha 23 anni, e presto i due si ritrovano a parlare diventando amici: questa conoscenza diventa l'occasione per uno scambio di racconti, di punti di vista e di modi di vedere la vita che cambia, in qualche modo, la vita di entrambi. Al centro c'è questa conoscenza, ma tecnicamente è un romanzo che definirei di dialogo perché i due parlano e quello che accade, in buona parte, scaturisce da quello che si dicono. Il tutto avviene alla presenza di un terzo personaggio importante, Bruna, la fisioterapista (che in realtà è bionda come nota Fenoglio), che ha un ruolo che ricorda il coro della tragedia greca. Però anche lei ad un certo punto diverrà protagonista ma non sveliamo di più. Dico solo che è un personaggio che ho amato molto scrivere».

Fenoglio racconta a Giulio il suo metodo di investigazione, e in qualche modo si affronta il tema della conoscenza e della ricerca della verità...

«Sì, nei dialoghi Fenoglio racconterà storie che aprono riflessioni sul metodo investigativo che è anche quello della conoscenza in generale, il ruolo del dubbio, dell'errore, del punto di vista dell'interlocutore e via discorrendo. Alla fine emerge un tentativo di ragionare su come noi ci poniamo davanti al tema della conoscenza e della verità, qualunque cosa si intenda per verità».

Anche nel libro precedente, il saggio "Con i piedi nel fango" torna sul tema della verità. Qual è la sua principale ossessione in questo momento rispetto alla verità?

«La mia percezione oggi è che più uno impara più si dilata l'orizzonte della sua ignoranza. Non è un gioco di parole. Lei immagini la nostra conoscenza come un'isola: il mare attorno è tutto quello che non si conosce. Più crescerà l'isola e più allargheranno i suoi confini, e man mano aumenterà la superficie a contatto con il mare, cioè il territorio dell'ignoranza. È un paradosso, ma solo in apparenza. Mi interessa particolarmente capire come l'ignoranza consapevole, cioè il non conoscere le cose, sia lo stimolo ad andare ad esplorare quello che non sappiamo, certi però di una verità inquietante: che più cose sappiamo e più ci renderemo conto di non sapere abbastanza».

Richiama un concetto filosofico socratico questo pensiero. Ma tornando a Giulio, il giovane disorientato ma intelligente e sveglio, è un po' una metafora del futuro?

«Una metafora non direi, però certamente nell'incontro tra i due il fattore tempo, cioè il rapporto complesso tra presente e passato passato e futuro, l'arco del tempo, ha una funzione fondamentale. Fenoglio uomo adulto ha la consapevolezza dolorosa di essere vicino alla pensione, mentre il ragazzo ancora non sa che cosa farà nella vita. E nel mezzo ci sono le storie di Fenoglio quando, in piena attività, faceva quello per cui è nato, cioè indagare e riflettere sul significato delle indagini. Giulio è un personaggio a pieno titolo a cui sono molto affezionato e, in particolare ad un punto del libro, si aprirà e racconterà, come mai prima, la sua dimensione intima più autentica».

Questo incontro generazionale è molto diverso da quello del precedente romanzo Le tre del mattino in cui si confrontano un padre e un figlio. Tuttavia è come se lei avverta la necessità di misurarsi con questo tema del passaggio di consegne' in mani giuste: è così?

«È possibile, c'è un'affinità di tema nonostante tra i due libri ci sia una messa a fuoco completamente diversa. Questo è un romanzo di investigazione, come gli altri di Fenoglio, in cui il ruolo della procedura e della consapevolezza della procedura è molto importante, e non potrebbe essere diversamente visto il lavoro che facevo Il racconto dell'investigazione è qui centrale, in Le tre del mattino non esisteva. Però è vero che entrambi si basano sulla dinamica del confronto tra un uomo adulto e uno giovane».

Scusi, ma lei cambia tono dicendo il lavoro che facevo prima. Ha scelto di sospenderlo per dedicarsi ad un'altra passione, e sappiamo che ne è felice, ma che cosa le manca di allora?

«Proprio quello che c'è nel libro, la parte investigativa. Mi piaceva molto. Ma mi mancherebbe anche se fossi rimasto in magistratura perché ormai sarei a capo di qualche ufficio e sarebbe un'altra cosa. Se pensiamo a stagioni della vita che sono passate c'è sempre qualcosa che ci manca, e sono convinto di aver fatto bene ad andarmene, non ho rimpianti, ma certamente ne ho nostalgia. Certi momenti penso che lo farei gratuitamente».

Riflettendo sul libro e su questo discorso viene facilmente da pensare che di quell'esperienza avrebbe tante cose da insegnare...

«È un lavoro che facevo abbastanza bene, forse qualche principio l'ho capito, ma francamente non so, non mi sento di poter insegnare niente a nessuno».

Concludiamo con una battuta? Se dovesse scegliere a chi donare cento copie di questo libro preferirebbe mandarlo più ad un gruppo di politici o di elettori?

«Lo manderei a chi non ha mai letto un libro poliziesco, noir o simile. Perché mi piace far cambiare idea a chi non legge libri come i miei, coinvolgere lettori scettici. Mi è capitato più volte di capovolgere l'opinione di qualcuno. Una volta un notissimo scienziato, ad una cena, molto garbatamente mi disse che sua moglie leggeva i miei libri, come a dire che lui aveva altro da fare. Poi facemmo una lunga conversazione, anche su questioni che conoscevo del suo lavoro, ed evidentemente i nostri discorsi lo colpirono tanto che alla fine mi chiese da quale libro avrebbe potuto iniziare se avesse dovuto leggermi. Gli indicai il primo, Testimone inconsapevole. Dopo tre giorni mi scrisse una mail in cui si scusava perché la supponenza degli accademici è spesso difficile da controllare, e mi scrisse cose molto profonde su quel libro. Ecco, far cambiare idea ai lettori è una mia soddisfazione».
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