Intervista (impossibile) a Bodini: «Inganno barocco, l'anima è nella terra»

Illustrazione di Giulia Tornesello
Illustrazione di Giulia Tornesello
di Stefano CRISTANTE
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Martedì 26 Dicembre 2017, 18:16
Intervistatore: Carissimo professore, come va?
Vittorio Bodini: Infreddolito. E lei?
I: Pure io. Nonostante sia nordico, da quando vivo a Lecce soffro il freddo.
VB: È uno degli effetti meno indagati della vostra cosiddetta globalizzazione.
I: Di che parla?
VB: Del mimetismo antropologico diffuso.
I: La ricordavo in polemica con l’ermetismo. Sia più esplicito se non le dispiace.
VB: Intendo dire che le persone si spostano di più, c’è più migrazione, più scambio. Chi capita al Sud, ad esempio, ne vive i modi d’essere in un’inconsapevole ricerca di accettazione nel nuovo ambiente. Vogliamo essere accettati. Possibilmente riconosciuti.
I: Quindi io sarei diventato più freddoloso per farmi accettare dai salentini?
VB: Sì, credo che nel suo caso si possa parlare di mimetismo meteorologico. Lei si sta salentinizzando, creda a me.
I: Fortunatamente ci sono aspetti mimetici meno fastidiosi di questo.
VB: Per esempio?
I: La gentilezza nei modi. La maggior durata degli aspetti cerimoniosi della vita e dei rituali. Questo mi piace molto, e spero di essere diventato anch’io un po’ così nel corso degli anni.
VB: A me invece i modi arabescati del Salento non sono mai piaciuti. Il Salento di cui ho scritto e narrato non è mellifluo: è funambolico!
I: Perbacco, si spieghi.
VB: Ho vissuto 56 anni, imbevuto di Salento anche se nato a Bari. Ho conosciuto la Spagna, di cui ho tradotto avanguardie e grandi poeti, affrontato il Chisciotte di Cervantes, gettato qualche verso alla luna della mia terra. Ho avuto una cattedra di letteratura spagnola, e amici indimenticabili, di cui il più caro fu Carmelo Bene, fu vicino anche negli attimi del mio trapasso.
I: Questo pare il ritratto del grande intellettuale che lei è stato più che la testimonianza del carattere funambolico del territorio.
VB: Ho troncato, anche nei modi di espressione personali, ciò che poteva far pensare a una gentilezza leziosa e opportunista. Il mio Salento è pieno di saliscendi e di lacerazioni, la sua bellezza è dovuta al suo carattere crudo e intriso di potenza naturale e artistica. Non c’è spazio per le circonlocuzioni: se vogliamo capire qualcosa di questa terra, non basta perdersi nel barocco e nelle maniere leccate che scimmiottano le infinite piccole borghesie provinciali della cittadina col grande castello: il Salento è nelle zolle, e le zolle sono dure, aspre, profonde.
I: Cosa ha trovato nel Sud della Spagna che non ha trovato nel suo Salento?
VB: Il bere, direi. La cultura del bere, più precisamente.
I: Mi dica.
VB: In Spagna c’è minore controllo sociale sul bere: le persone parlano e sono accolte per ciò che dicono, a prescindere dalla quantità di alcol che è stata vista ingerire da parte loro.
I: Eppure dicono tutti quelli che l’hanno conosciuta che lei era un forte bevitore, capace tuttavia di grande autocontrollo.
VB: Bere fa parte dell’umanità e soprattutto dei poeti. Non c’è nessun dubbio che l’alterazione dionisiaca dei poeti faccia parte da sempre della ricerca di uno stato euforico necessario per dare via alla creazione. Non ho mai conosciuto un talento artistico astemio.
I: Però chissà, professore: forse senza tutto quell’alcol lei avrebbe vissuto dieci o vent’anni di più.
VB: Non avrei comunque modo di rimediare, anche se volessi. E tutto sommato non voglio: mi sta bene così. Ho fatto quel che volevo. E c’è chi mi ha amato.
I: Se è per questo in molti la amano ancora. Anzi, lei oggi ha un manipolo di studiosi e ricercatori che lavorano sui suoi testi e sulla sua produzione scientifica. Lei fu non solo un poeta, fu un traduttore apprezzatissimo di opere gigantesche. Dicevamo del Chisciotte: dev’essere stata una ben difficile impresa.
VB: Venivo dall’esperienza delle avanguardie, ero stato un giovanotto futurista, e quindi mi ero immerso nell’ambiente delle riviste poetiche. Avevo tradotto Garcia Lorca ed era stata un’esperienza esaltante. Ma con Cervantes dovetti scalare una montagna, mi trovai di fronte un ingegno che aveva costruito sulla fiaba di un pazzo sprofondato nel passato l’epopea di piccoli e grandi uomini che costruivano la modernità anche nelle terre desolate della Mancia e della Castiglia. Ero leggero in quel periodo, atteggiamento che porta fortuna ai traduttori: mi dicono che il mio lavoro sul Chisciotte sia ancora apprezzato.
I: È senz’altro così professore. Che mi dice di Eugenio Montale?
VB: Io e Carmelo lo chiamavamo l’Eusebio. Si scherzava. A Forte dei Marmi le discussioni erano surreali, tra fondi di caffè e cognac.
I: Rafael Alberti?
VB: A volte i grandi poeti si impegnano in grandi amicizie. Tenga anche conto del mio amore per il parlare spagnolo, il piacere fisico che mi dava l’esprimermi nella lingua di Alberti. Si parlava, si beveva, si discuteva ancora: della vita, del mondo da cambiare, della Musa.
I: E Roma?
VB: Ho vissuto a Roma negli anni giusti, credo. Città imparagonabile a quella odierna, che mi pare culturalmente pietrificata e sciatta. Per non parlare di Firenze, dove mi sono laureato: oggi sembra una pizzeria dove si serve con posate di finto argento.
I: Lei riposa nel cimitero di Lecce. Posso chiederle come si trova?
VB: Le dirò: la natura si manifesta in maniera botanicamente ricca da queste parti. In particolare amo gli alberi di questo posto. Sono alti e belli, rassicuranti. Solo un desiderio avrei.
I: Dica, l’assessore Signore ci ascolta.
VB: Vorrei sentire di tanto in tanto della musica da queste parti. Mi dicono che altrove nei cimiteri si organizzino concerti e letture di poesie. Risentire la voce di Carmelo: questo mi farebbe felice.
I: Trasmetteremo il messaggio professore. Buon Natale.





La nota a piè di pagina:
Salentino di nascita e spagnolo d’adozione, Vittorio Bodini figura tra i maggiori poeti dimenticati del secolo scorso. Instancabile sperimentatore, amante e traduttore della letteratura spagnola, critico letterario e mediatore culturale, Bodini ha attraversato tutte le avventure artistiche del Novecento europeo (fu, tra l’altro, aeropoeta futurista). Si interessò soprattutto della traduzione delle opere dei poeti surrealisti spagnoli e scrisse anche sul Barocco di Gòngora. Bodini nasce a Bari il 6 gennaio 1914 da una famiglia di origine e tradizioni leccesi. A tre anni perde il padre e la madre ritorna nel capoluogo salentino, dove Vittorio frequenta le scuole fino al conseguimento della maturità classica presso il Ginnasio-Liceo “Palmieri”. Nel 1931 fa il suo esordio sul settimanale “La Voce del Salento”, fondato e diretto dal nonno materno, Pietro Marti, storico e giornalista locale, pubblicando articoli vari e prosette creative. L’anno successivo aderisce al futurismo e fonda il Futurblocco leccese. È autore di numerosi scritti in prosa oggi riscoperti. Da ricordare La luna dei Borboni (1952), Dopo la luna (1956), Metamor (1967) e Poesie (1972, raccolta postuma uscita per Arnoldo Mondadori Editore). Muore a Roma a soli cinquantasei anni, il 19 dicembre 1970, stroncato da un male incurabile. Le sue spoglie dal dicembre 2010 riposano nel cimitero monumentale di Lecce.

 
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