Buttafuoco: «Amore e poesia aiutano a guadagnare il futuro»

Buttafuoco: «Amore e poesia aiutano a guadagnare il futuro»
di Claudia PRESICCE
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Domenica 2 Luglio 2017, 18:45
“Ci sono i baci, c’è il viaggio, c’è la poesia: ma una bella copertina, come tutte le cose belle, non si spiega”. Ma in realtà lui, Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore, di bellezza ne ha voluto parlare, dissertare e raccontare nel suo libro dal titolo fortemente evocativo: “I baci sono definitivi” (La nave di Teseo), che ha presentato ieri sera a Ostuni nell’ambito della rassegna “Libri in faccia”. Nella copertina “bella” appare la fotografia di un saluto antico fra marinai sulla nave pronti a salpare e le loro donne inginocchiate verso gli oblò per un ultimo bacio. Disegna iconograficamente la storia di queste pagine fatte di storie, di poesie d’amore e di frasi “rubate” tra le fermate della metropolitana.
Cominciamo dal principio. Buttafuoco che cosa vuol dire “i baci sono definitivi”?
«È una bellissima espressione che ho catturato in uno dei dialoghi a cui ho assistito e che ho racchiuso in questo libro, storie che incontro ogni giorno, nella mia condizione di pendolare. Quella volta era un dialogo tra due musiciste su un tatuaggio, un gioco tra due donne circondate da tanti passeggeri intorno. Uno su tutti, un ceffo, le ascoltava ammirato e rapito e colse l’occasione, come fa chi è sempre nella quotidiana caccia di passioni e gioie, per mettere a segno “questo colpo”. Così mentre una spiegava all’altra che quel grande tatuaggio che aveva era all’henné perché non voleva avere nulla di definitivo sulla sua pelle, lui si inserì con un “ad eccezione dei baci”. “Perché mai”, chiesero subito le signore, e lui: “perché i baci sono definitivi”».
Ed ecco una delle istantanee “rubate” nella metro che sono il filo conduttore del libro: scene animate dei non-luoghi della nostra società in cui, una volta entrati, siamo tutti uguali con le nostre emozioni come in un tempo sospeso. Lei ha scelto di fermare immagini di poesia e amore: spieghiamo perchè?
«Perché nella normalità, nella quotidianità, nelle consuetudini banali e nella fatica di apparecchiare la giornata, ci si riserva sempre uno spazio. E dobbiamo rendere visibile quello che abbiamo dentro, addosso, intorno a noi e quello che poi scatena e provoca la meraviglia. In un certo senso è come fare un editing a migliorare quello che viviamo, avere la capacità di trovare la gioia nella vita che è un contravveleno a quella angoscia che sembra prevalere nella fatica di tutti».
Vuole dire anche che dobbiamo guardarci di più, essere meno stranieri l’uno verso l’altro?
«Certo, proprio così. La fatica è avere chiara una metodologia: è più importante guardare che essere guardati, è più importante ascoltare che essere ascoltati, è più importante amare che essere amati».
Guardare gli altri immaginando le storie di cui sono portatori è poi uno straordinario esercizio di creatività che accende la mente.
«È senza dubbio un esercizio, ma nella coda dell’occhio quello che ci resta acquattato è sempre il dettaglio che rivela e fabbrica la sostanza delle storie».
Certo, deve partire sempre tutto da un dato di realtà.
«Sì, siamo stati viziati dalla potenza della realtà che scrive copioni molto più affascinanti di quelli inventati».
A un certo punto lei scrive una frase che va molto al di là di questo libro: “la disobbedienza notificata ai cani del potere devasta la vita dei rivoltosi annegandoli – peggio che gattini nell’acqua – nella solitudine”.
«Siamo in un contesto sociale in cui non c’è più la possibilità di avere ognuno una propria identità dissidente. Questa omologazione ha costretto chiunque abbia una posizione differente a sottostare ad uno tra due ruoli: essere ridicolizzato o criminalizzato. Nessuno che ha una posizione di contrapposizione o di dissidenza viene oggi preso sul serio».
E dov’è finita la possibilità di indignarsi?
«Sono fasi della storia. Noi siamo in fondo in un contesto periferico che non impegna potentemente la storia. Giorni fa durante la cerimonia di Putin che posizionava la corona in memoria dei caduti della guerra patriottica scoppiò un temporale, ma lui restò impassibile in un’immagine statuaria. Contemporaneamente circolava in rete un’immagine che ritraeva Renzi che si gettava una secchiata di ghiaccio in testa. La stridente differenza tra le due immagini non è solo iconica, ma anche poetica. In Putin ovviamente c’era una forma di preghiera e un’immedesimazione solenne con la storia russa, dall’altro lato c’era la caricatura di una voga pop...».
Di immagini poco solenni sulle derive pop nella politica italiana potremmo trovare tante...
«Sì, ma in questa immagine era emblematico che ci fosse lo stesso elemento, l’acqua, poi un politico, e una storia».
Ma quando siamo diventati un luogo in cui non succedono le cose? Dov’è finita la capacità di reazione degli italiani? In fondo il ’68 lo abbiamo fatto pure qua, e siamo figli di quella stagione.
«Siamo una realtà periferica senza storia in questo momento, in una fase di totale irrilevanza. Manca la capacità di accostarsi alla bellezza e alla grandezza, sono conseguenze di un disagio generale».
Come finisce questa storia?
«Finché non si svuota tutto completamente e arriverà un nuovo pieno, un nuovo contenuto».
Dobbiamo aspettarlo dai giovani? Come li vede lei?
«Se non c’è un fondamento, un patrimonio, una storia e un’identità, non si può fare molto. Tutte le realtà fresche potenti che dominano il mondo sono accompagnate sempre dal patrimonio dell’identità e da un tesoro di immagini di poesia con cui si aiutano a guadagnare il futuro. Il disagio che viviamo noi non lo vivono per esempio altri, non lo vivono gli indiani, non lo vivono in gran parte del territorio asiatico, lì dove c’è il futuro. Noi facciamo ridere rispetto ai numeri: ci sono realtà statuali dove il 70 per cento della popolazione è al di sotto dei 30 anni e ha una formazione scientifico culturale molto più forte dei nostri figli e nipoti».
Dove l’abbiamo persa questa partita?
«Proprio in quella tragedia che ha evocato prima lei: nel ’68, che ha prodotto soltanto asini incapaci di mandare a memoria una tabellina e una poesia».
Il contrario di quello che si proponeva.
«Certo, se non c’è la scienza si è schiavi, se non c’è la conoscenza si è ridotti al rango di camerieri altrui. Fino a 20 anni fa l’Italia era conosciuta nel mondo attraverso parole come “andante”, “allegretto” che venivano dal gergo della musica colta. Oggi le parole italiane più note nel mondo sono “pasta”, “pizza”. Non veniamo più identificati come portatori dell’identità universale del nostro patrimonio culturale artistico, ma come bravi cuochi, e questo dà il senso del cambiamento. La differenza tra un ragazzo indiano e uno italiano è che il primo conosce almeno cinque lingue e sa smontare e rimontare il telefonino, il secondo invece difficilmente ne conosce più di due e non ha nessuna consapevolezza della tecnologia. I primi si fanno i soldi con Bollywood, l’industria del cinema, mettendo dentro tutto il loro patrimonio artistico, poetico, mitologico, ballano e vivono il pop a colpi di Bhagavad-gita (un testo sacro induista; ndr). Sarebbe come immaginare la nostra realtà animata da industrie culturali a colpi di Iliade e Odissea che invece nessuno conosce più. In cambio c’è una deriva semplice: più si è analfabeti e più si è schiavi e l’ignoranza porta alla sudditanza sociale ed economica».
In Puglia nella ricerca di identità si è recuperata la pizzica.
«È anche quello l’inizio di un percorso, perché nella pizzica c’è la radice della cultura dionisiaca: deve dialogare con se stessa, in un percorso profondo che la porta direttamente ad un’identità remota, mediterranea e di assoluta dignità».
Quanto le è servito avvicinarsi all’Islam per le sue riflessioni?
«Come per la pizzica sono identità profonde, remote, che vivono dentro di noi. Non possiamo privarci di questa linfa remota che ci nutre, che arrivi da Roma, dall’Ellade, dall’India, dall’Islam, sono tutti percorsi dell’universale, raggi della stessa luce. Abbiamo il vantaggio di affidarci a tanti raggi che ci portano ad un’unica sorgente».
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