Bene, uomo e artista, genio folle e ribelle

Bene, uomo e artista, genio folle e ribelle
di Claudia PRESICCE
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Sabato 2 Settembre 2017, 20:55
Il suo cielo infinito va oltre gli ottanta anni che oggi compirebbe. Le sue opere parlano ancora di lui, la sua voce offre miracoli alla portata di chi ha la pazienza di capirne le sfumature, le ironie, le violenze che riecheggiano versi ad un mondo troppo piccolo per un genio. Il mondo in realtà ce lo invidia, ma noi, proprio noi che dovremmo cavalcarne la storia, lo ricordiamo troppo poco. Questi ottanta anni dalla nascita di Carmelo Bene, se non fosse per la inossidabile solerzia del sindaco professore del suo paese natale sarebbero passati quasi inosservati. Non è un caso che sia lo stesso sindaco, Egidio Zacheo, che nell’ottobre del 1995 gli consegnò le chiavi della città ricucendo una lacerazione con la sua terra.
In verità pochi hanno, ancora oggi, vera contezza dell’opera e della statura di Carmelo Bene e del suo valore oltre la maschera sfuggente a catalogazioni e canoni, al di là del suo impressionante sguardo vigile e al contempo assente che va oltre, molto oltre anche gli ottanta anni che quel bambino nato il 1° settembre del 1937 in una lontana Puglia e in un’altra Italia oggi avrebbe, se non fosse partito per l’ultimo viaggio il 16 marzo 2002.
Eppure ha dato un eroe alla sua terra quel Carmelo Bene enfant prodige fino alla fine, teorico e innovatore del teatro, attore, regista, scrittore, ma anche uomo degli scandali nel teatro, nel cinema, in televisione, e ancora dopo la morte al centro di contese.
Ha conservato sempre della sua nascita a Campi Salentina e del Salento, nonostante un rapporto travagliato (come tutti i suoi grandi amori), e della sua religiosissima famiglia, l’afflato passionale verso la vita, un senso di riscatto trasformato in orgoglio e convincimento della propria grandezza, un rifiuto irresistibile e nello stesso tempo un’attrazione fatale per il sacro e il divino.
Una personalissima tensione spirituale è stata una variabile fissa nella sua esistenza, nonostante le ribellioni a un’infanzia in cui fra Campi e Lecce veniva mandato a “servire” come chierichetto una messa dietro l’altra. L’altare fu in realtà una sorta di primo palcoscenico dove il bambino era chiamato a eseguire un copione, un ruolo di cui non tutto capiva ancora o condivideva. Fu forse già quello il momento in cui decise che il suo teatro lui se lo sarebbe inventato, lo avrebbe stravolto e avrebbe mostrato al mondo quanto potevano le cose umane essere sovvertite. 
È storia nota che ai tempi della scuola invitasse sui tetti della sua casa leccese al centro storico gli amici adolescenti, spesso portati da Edoardo De Candia (e con lui il noto gruppo di artisti, Tonino Caputo, con cui il sodalizio proseguì a lungo a Roma e sfociò anche in collaborazioni legate al cinema, Antonio Massari e Ugo Tapparini) a sentirlo declamare verso il cielo: poesie, versi, frasi presto distorte e diventate quasi incomprensibili nel loro significato letterale. A un genio la parola non basta nella sua finitezza semantica. Le lettere hanno un suono, una dinamica che in lui sposava le alterità di una voce a tratti ossessiva, scarna, flebile o urlata, ferma o tremante, “il suo strumento” come disse certa critica.
E certamente anche per la fisicità e freschezza musicale del suo declamare mai scontato, per il timbro di una voce unica, che sembrava sgorgare da una sorgente montana più che dalla gola di un uomo, che della sua letteratura, delle opere scritte di Carmelo Bene, spesso dedicate al suo “Sud dei sud” si è meno parlato, scritto, studiato. In realtà dal primo romanzo “Nostra Signora dei turchi” del 1965 (pubblicato da Sugar a Milano nel ‘66) all’ultimo poemetto “’l mal’ de’ fiori” uscito due anni prima della sua morte, nel 2000, e composto anche durante i ricoveri in ospedale, Carmelo Bene ha sempre scritto.
È del ‘95 la raccolta delle sue opere letterarie nei classici Bompiani nella collana delle “Grandi opere”, rimasta però in troppi casi sugli scaffali delle librerie e delle biblioteche. Prevalse da subito nella poetica di Bene la sua fisicità prorompente, il personaggio imponente che cominciò a farsi strada nella Roma degli anni Sessanta con operazioni sconcertanti, con un’indole sprezzante e irresponsabile che sapeva però accattivare, conquistare. Difficile ricostruire tutte le storie leggendarie che riguardano il giovane artista, lo scompiglio che portò ovunque, anche al tempo della breve frequentazione dell’Accademia d’arte drammatica “Silvio D’Amico”.
Dopo il debutto nel ‘59 con “Caligola” diretto da Alberto Ruggiero, e l’innamoramento con l’Ulisse di Joyce, dal ‘61 diventò anche regista di se stesso e arrivarono il primo “Amleto” e il primo “Pinocchio” (fino alla fine trasformati e ripresi in salse diverse). Nel ‘63 venne censurata la sua compagnia Teatro Laboratorio protagonista di atteggiamenti ingiuriosi davanti all’ambasciatore argentino (i suoi attori urinarono addosso alla delegazione diplomatica e alle loro mogli in pelliccia).
Vennero anche “Cristo ‘63” e anni di scandali continui (e propizi dirà lui stesso nell’autobiografia), ma anche quelli in cui al contempo il suo nome cominciò “a girare” come un fenomeno nuovo, dissacrante, anticonformista. Il sodalizio artistico con Lydia Mancinelli (che dopo la fine del matrimonio di Bene con l’attrice Giuliana Rossi diventò anche sentimentale) regalò all’attore-autore-sperimentatore una stagione d’oro. “Salomè” del ‘64 al Teatro delle Muse, seguita da “Manon”, aprirono la strada alla conquista di una critica osannante tra cui spiccavano figure come Ennio Flaiano e Alberto Arbasino. Ma non tutti credettero in questo giovanotto spiritato venuto dalla Puglia a scompaginare le carte del teatro italiano: la critica sarà divisa a lungo su di lui, soprattutto in Italia. Tra i suoi primi estimatori però vanno anche citati Eugenio Montale, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini. Quest’ultimo lo chiamò a partecipare al suo film “Edipo Re” nel ‘67 e in qualche modo aprì la breve stagione cinematografica di Bene regista e attore durata sino al ‘73: una parentesi che porterà nel ‘68 Carmelo Bene a vincere il Leone d’argento al Festival di Venezia con l’adattamento cinematografico di “Nostra Signora dei Turchi”. Il suo nome allora volò anche fuori confine, erano altri anni, un’altra Italia.
La storia dell’uomo Bene, fino alla morte, coinciderà con quella artistica. Salomè è oggi il nome di sua figlia (avuta nel ‘92 dalla seconda moglie, Raffaella Baracchi) che ha i suoi stessi occhi profondi. Ma del pensiero e dell’arte di Carmelo Bene molto ancora va detto, capito, ricordato, studiato.
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