Dai sogni ai dispetti: l'alba della Repubblica vissuta da due salentini

Giuseppe Codacci Pisanelli (a sinistra) e Giuseppe Grassi
Giuseppe Codacci Pisanelli (a sinistra) e Giuseppe Grassi
di Renato MORO
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Domenica 18 Febbraio 2018, 19:06 - Ultimo aggiornamento: 3 Novembre, 20:36
Villa Materdomini era un sogno. La Valle della Cupa abbracciava le vigne e gli ulivi secolari, accarezzava il grano alto e nei giorni d’estate con l’ombra dei pini rinfrescava uomini e bestie. Lì ad Arnesano, nell’azienda agricola creata dal principe Sebastiano Apostolico Orsini, sindaco di Lecce nel 1908 e poi nel 1914, c’era di tutto. E quel tutto era stato perfezionato da Giuseppe Grassi, nipote prediletto dell’Orsini, quando lasciò la cattedra di diritto a Roma per tornare nel Salento. C’erano il frantoio, le cisterne per il mosto, le case dei contadini, la cappella per la messa, il cortile per le feste e i giochi della domenica e c’era anche una scuola per i figli dei mezzadri che lì imparavano a leggere e a scrivere.
E c’era un sole caldo, in quella giornata di primavera del ‘46, quando il professore accolse nella villa re Umberto. «Il re!, il re!, gesugiuseppemaria!», urlarono le donne facendo il segno della croce e correndo verso il viale che conduceva alla villa. Raccontano che sua maestà si affacciò da un balcone del primo piano per salutare e invitò tutti a sostenere la monarchia. Da lì a poco gli italiani scelsero la Repubblica e il re lasciò il Paese per l’esilio. I contadini di Villa Materdomini e le loro donne votarono per la monarchia. Il Salento, come tutto il Meridione, votò in maggioranza per il re. Non votò così il professore Grassi, che presto nella neonata Repubblica sarebbe stato deputato liberale e ministro guardasigilli.
In questi giorni gli eredi dello statista hanno donato all’Università di Lecce la biblioteca, oltre settemila volumi alcuni dei quali davvero pezzi rari, e una delle copie della Costituzione che il 27 dicembre del ‘47 il ministro salentino firmò insieme col presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, il Capo dello Stato Enrico De Nicola e il presidente dell’Assemblea costituente Umberto Terracini. Un documento eccezionale, la cui donazione assume un valore particolarmente simbolico ora che della Costituzione si stanno festeggiando i 70 anni. Un motivo in più per recuperare il ricordo di Grassi, visto che il riconoscimento dei leccesi finora non si è spinto molto oltre il viale che porta il suo nome e che non è nemmeno tra le strade più belle della città.
Giuseppe Grassi, di nobile famiglia cattolica e liberale, aveva 63 anni quando fu eletto nell’Assemblea costituente. Era il 1946, le ferite della guerra ancora sanguinavano, il Paese era distrutto e Alcide De Gasperi guidava un governo che faceva i primi passi in una Repubblica chiamata ogni giorno a fare i conti con i lasciti del Fascismo. A Roma, in quei giorni, Grassi s’intratteneva spesso con un altro collega della pattuglia di deputati salentini. Giuseppe Codacci Pisanelli era nato a Roma il 28 marzo del 1913. Più giovane di Grassi, a differenza del professore aveva la tessera della Democrazia cristiana. Parlavano spesso, quando si incontravano, di Alfredo Codacci Pisanelli, papà di Giuseppe, sottosegretario del regno d’Italia e professore di diritto all’Università di Roma. Grassi era stato un suo allievo e frequentando le sue lezioni, leggendo i suoi libri, aveva fortificato la passione per il diritto. Alfredo era un fiorentino doc, nato in una sfortunata famiglia di commercianti. La mamma, Bianca Naldini, rimase vedova quando il figlio aveva pochi giorni di vita e dopo qualche anno incontrò e sposò il salentino Giuseppe Pisanelli, di Tricase, giurista tra i più colti all’epoca e ministro di grazia e giustizia nel governo che Garibaldi costituì a Napoli nel 1860. Lui morì prima di poter definire legalmente l’adozione di Alfredo, ma la signora Bianca volle comunque dare al figlio il doppio cognome e una nuova patria: Tricase.
Un liberale e un democristiano. La sfida di oggi, immaginaria ma non troppo, è questa. Due personaggi che hanno dato molto, non soltanto al Salento, due storie che si intrecciarono nei mesi in cui a Roma si scrisse la Costituzione repubblicana. Un’esperienza che per ciascuno dei due assunse un significato particolare: per Giuseppe Grassi fu l’ultimo grande risultato di una carriera politica che aveva attraversato gli anni più importanti del regno; per Giuseppe Codacci Pisanelli fu invece una sorta di trampolino di lancio verso altri traguardi, il più importante dei quali - almeno per noi salentini - fu la battaglia per la nascita dell’Università a Lecce. Una vittoria su tutti i fronti, nel caso dell’Ateneo, che in parte riuscì a ripagare il deputato di Tricase della sconfitta che invece dovette incassare nel 1946.
Qui la storia si tinge di giallo. Nella prima bozza della Costituzione repubblicana Codacci Pisanelli era riuscito a far inserire la regione Salento. In buona sostanza nella divisione territoriale del Paese il tacco dello Stivale avrebbe dovuto presentarsi diviso in due parti: una regione con Bari capoluogo, comprendente anche la provincia di Foggia, e un’altra costituita dalle province di Brindisi, Lecce e Taranto. Nella bozza predisposta dalla “Commissione dei 75”, incaricata dall’Assemblea costituente di mettere nero su bianco il progetto di Costituzione, la regione Salento c’era. Giuseppe Codacci Pisanelli era convinto che tutto sarebbe andato per il verso giusto, ma accadde qualcosa che modificò i piani fino a cancellare nel giro di una notte la regione Salento. Quel “qualcosa” accadde nel passaggio che la bozza fece dai tavoli della “Commissione dei 75” a quelli del “Comitato dei 18”, un gruppo ancora più ristretto di deputati chiamato a dare il ritocco finale ai vari articoli. Un colpo di spugna, una passata con la gomma che non lasciò traccia se non una profonda delusione in chi quel progetto lo aveva portato avanti.
Sul punto le spiegazioni sono poco esaurienti e per certi versi il mistero di quel rimescolamento di carte non è mai stato chiarito. Si racconta che a far depennare il Salento dall’elenco delle regioni fosse stato l’intervento in extremis di Aldo Moro, nel ‘46 già vicepresidente della Democrazia cristiana e anch’egli deputato nell’Assemblea costituente. Moro era nato a Maglie, città che lo ricorda con una statua in cui lo statista ucciso dalle Brigate rosse nel 1978 appare con una copia dell’Unità in mano in omaggio alla sua politica di avvicinamento tra la Dc e il Pci. Ma era anche portatore di interessi baresi, che ovviamente non vedevano di buon occhio la divisione della Puglia e chiedevano a gran voce di conservare una sola regione con le cinque province. Un accordo con Palmiro Togliatti finì per togliere il sostegno dei comunisti al progetto di Codacci Pisanelli. Il resto fu una questione di pochi secondi, giusto il tempo occorrente per modificare l’articolo.
Il deputato di Tricase ebbe modo di rifarsi un decennio dopo, quando Lecce e il Salento riuscirono ad ottenere l’Università nonostante il parere contrario dei baresi che temevano un indebolimento del loro ateneo. Codacci Pisanelli ricoprì la carica di rettore dal 1955 al 1976 e in quegli anni si prese anche la rivincita nei confronti dei comunisti che avevano contribuito a tagliare le gambe alla “sua” regione. Fu durante la prima occupazione dell’Ateneo leccese, quando anche in Puglia cominciò a soffiare il vento del Sessantotto. Un giorno alcuni studenti che dormivano nella sede di Porta Napoli lo sorpresero mentre cercava di entrare da una finestra che dà nel cortile posteriore. Che ci faceva il rettore lì? Non voleva cacciarli, ma aveva sfidato i picchetti per chiedere agli studenti di sinistra di sostenere la sua battaglia per far diventare quella di Lecce un’università statale. C’erano da superare le ultime resistenze dei soliti baresi e così chiese ad un paio di universitari di sensibilizzare il Pci a Roma. La richiesta fu accolta. Una delegazione guidata dal futuro editore Piero Manni parlò con i responsabili del Partito comunista e l’università di Lecce divenne statale. Fu, quella, l’ultima grande battaglia vinta. Nello stesso anno, il 1968, Codacci Pisanelli divenne per la seconda volta sindaco di Tricase e nelle elezioni del ‘72 e poi in quelle del ‘76 fu eletto alla Camera.
Giuseppe Grassi non fece in tempo ad assistere alla nascita dell’ateneo leccese. Morì il 26 gennaio del 1950, proprio mentre sperava di raccogliere i frutti del suo tentativo di riscrivere il vecchio codice penale. Riuscì, però, a realizzare i progetti per Materdomini, l’azienda agricola che era stata fondata dallo zio Sebastiano. L’organizzazione del lavoro ne aveva fatto una sorta di isola felice in un Salento ancora troppo arretrato. Basti pensare che proprio nel 1950, pochi mesi dopo la morte di Grassi, nelle campagne dell’Arneo scoppiò la seconda rivolta dei contadini che chiedevano l’assegnazione delle terre ancora nelle mani di pochi latifondisti. E così, mentre i figli dei mezzadri di Materdomini studiavano nella scuola annessa all’azienda, i figli dei rivoltosi di Nardò, Copertino e Veglie ogni giorno dovevano inventarsene una per aggirare i posti di blocco della polizia di Scelba e portare il pane agli adulti che occupavano i campi.
Materdomini, abbandonata da anni, oggi ha un aspetto spettrale, anche se le maioliche che hanno resistito al tempo e all’umidità testimoniano il suo nobile passato. Pochi ne conoscono la storia, eppure sono tanti, migliaia, quelli che l’hanno ammirata al cinema. Merito di Ferzan Ozpetek, che in quelle stanze ha fatto vivere la famiglia Cantone nel suo primo film girato interamente a Lecce e dintorni. Come quel film ci insegna, siamo tutti delle potenziali “mine vaganti”. E nel nostro vagare prima o poi spunterà qualcuno disposto a ridare dignità a quelle stanze.
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