Detto e mangiato: così i bisogni creano le parole

Detto e mangiato: così i bisogni creano le parole
di Rosario COLUCCIA
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Domenica 5 Febbraio 2017, 19:32
Di mestiere faccio il linguista. Un lettore che preferisce non essere citato (ma la lettera è firmata, non rispondo a lettere anonime) mi scrive. «La lingua italiana è bellissima e difficile, ha ragione quando ci invita a rispettarla e a usarla in modo corretto. Ma perché non parla qualche volta dei dialetti, non meritano attenzione e rispetto? Io sono orgoglioso di usare il mio dialetto, lo faccio ogni volta che posso, non me ne vergogno».
Il lettore ha ragione, ci mancherebbe. I dialetti sono importanti, ben vivi anche nella società tecnologica e telematica, usarli rappresenta una rivendicazione orgogliosa della propria identità.


Non si oppongono alla lingua, anzi la arricchiscono: molte parole di origine dialettale (all’origine diffuse solo in zone più o meno ristrette d’Italia) entrano nella lingua, la rinnovano e la vivificano, diventano di tutti.
Il passaggio di una parola da un dialetto alla lingua nazionale procede per gradi. Dapprima essa viene usata solo nel dialetto, poi affiora anche nell’italiano che parlano e scrivono gli abitanti di una certa regione: la si legge sempre più spesso sui giornali locali o la si sente nelle radio e nelle televisioni regionali, entra nei libri di scrittori della regione. Così, se ha successo, poco alla volta diventa della lingua italiana comune. Perché questo avvenga la parola (e l’oggetto a cui si riferisce), deve essere accettata da molti, deve piacere. L’ho scritto altre volte: la lingua è democratica, i parlanti decidono se le parole vivono o muoiono. Faccio un solo esempio, quello di pizza: la parola, riferita a quel cibo semplice e buonissimo che a Napoli si mangia a tutte le ore, ha avuto un successo strepitoso, collegato al gusto del cibo. La parola pizza, all’origine solo del dialetto di Napoli, è usata nell’Ottocento da personaggi famosi a Napoli e in Italia. La usa Matilde Serao, scrittrice e giornalista, prima donna italiana ad aver fondato e diretto un quotidiano che vive anche ai nostri giorni (Il Mattino), autrice di romanzi e novelle nei quali rievoca aspetti, ambienti, figure della più gremita vita napoletana. In anni successivi entra nei film che raccontano la vita di quel popolo meraviglioso e nobile (oggi violentato dalla camorra), vende la pizza Sophia Loren nell’episodio Pizze a credito del famoso film L’oro di Napoli del 1954. La parola, ormai divenuta italiana, nel secondo Novecento penetra, col derivato pizzeria, in moltissime lingue straniere. Oggi pizza è, senza alcun dubbio, la parola italiana più conosciuta al mondo.
I dialetti delle varie regioni hanno dato contributi importanti alla lingua nazionale. Per limitarci a pochissimi esempi di cibi, dal Piemonte vengono il barbera, il barolo, gli agnolotti, i grissini; dalla Liguria il pesto e le trenette; dalla Lombardia lo stracchino, il gorgonzola, il panettone; dall’Emilia il cotechino, il culatello, i tortellini; da Roma e dal Lazio i bucatini, i rigatoni, i saltimbocca; da Napoli le sfogliatelle, la mozzarella, la provola; ecc.
A volte la stessa parola significa cose diverse in zone diverse. A Roma e in tutt’Italia la porchetta è ‘maiale da latte svuotato delle interiora, riempito di sale, pepe, lardo, aglio e altri aromi e cotto allo spiedo’; ma in Salento fino a qualche anno fa con la stessa parola si indicava la ‘mortadella’ e ancora oggi (pur raramente) mi capita di sentire delle persone anziane che usano il termine con quel significato, solo locale e in regresso. La ‘fetta di carne che si cuoce sulla brace o in padella’ si definisce braciola quasi dappertutto; in Salento spesso quel termine indica anche la ‘fettina di carne arrotolata attorno a un ripieno’ insomma un involtino.
Altre volte succede il contrario, si danno nomi diversi allo stesso oggetto: il ‘pesce pregiato dal corpo allungato, di color grigio argenteo’ si chiama branzino nell’Italia settentrionale, spigola nel resto d’Italia; il ‘pesce dal corpo appiattito di colore argenteo-rossastro’ si chiama pagello quasi ovunque, meno che al sud e in Salento, dove prevale la forma lutrino, dal greco erutrinos ‘rossiccio’. È facile intuire il motivo, nell’estremo sud d’Italia il greco e il greco-bizantino sono lingue ben note, lo sappiamo dalla storia: sono di origine greca città importanti come Taranto, i bizantini hanno abitato per secoli una larga fetta del territorio salentino, da Otranto fino a Gallipoli (il nome stesso della città è greco), e ancor oggi a Sternatia, a Martano e negli altri paesi nella Grecìa si parla un po’ il grico, in grico sono tanti canti della pizzica.
Nel 1956 lo svizzero Robert Rüegg pubblicò una ricerca intitolata Sulla geografia linguistica dell’italiano parlato (nel 2016 presso l’editore Cesati di Firenze ne è stata pubblicata una ristampa, con introduzioni e commenti di vari studiosi). Rüegg era un ricercatore intelligente, dal carattere quasi ascetico; deluso dal comportamento dell’accademia svizzera, non continuò a fare ricerca, si ritirò in disparte. Lo stesso càpita troppe volte in Italia, ricercatori bravi vengono esclusi dall’università, per favoritismo o per nepotismo si preferiscono gli incapaci. Torniamo a noi. Con la sua inchiesta Rüegg dimostrò la notevole eterogeneità del lessico italiano, che cambia nei diversi territori. Il concetto di ‘anello nuziale’ si esprime in maggioranza con fede, ma in alcune zone si dice anello matrimoniale, in altre (ancor meno numerose) vera, anello benedetto, verghetta. La nozione di ‘oggetto che serve per far giocare i bambini’ è espressa con giocattolo (maggioritario in Italia), ma anche con giocarello (soprattutto a Roma, Orvieto e L’Aquila), con gioco (a Pavia e a Bologna), con balocco (in Toscana. Tutti ricordiamo il Paese dei balocchi dove vanno festanti Pinocchio e Lucignolo, perché lì non si studia e non si lavora).
Fernando Boero, noto ai lettori di «Nuovo Quotidiano», mi scrive: «Sto sfottendo un amico napoletano che invita la gente a colazione e per lui questo è il pranzo; il pranzo, ovviamente, per lui è la cena; la cena non sappiamo bene cosa sia.  Per me la colazione è la prima colazione, in inglese breakfast; il pranzo è il lunch; e la cena è il supper; poi per gli inglesi c’è il dinner, che per noi potrebbe essere il pasto (e questo può essere di mezzodì o serale). Sul dizionario trovo definizioni contraddittorie: colazione s.f. 1 Il primo pasto del mattino (detto anche prima c., in contrapposizione alla seconda c., cioè il pasto di mezzogiorno). 2 arc. Leggera refezione serale dopo una giornata di digiuno. 3 estens. (region.). Il pasto leggero di mezzogiorno nei luoghi ove c’è l’abitudine di desinare la sera; impropr., il pranzo vero e proprio». Boero così commenta: «Colazione per il pasto viene considerato improprio, oppure regionale. Molto spesso, anche al nord, i ricchi fanno colazione intendendo il pranzo di mezzodì. Forse perché la cena la fanno a mezzanotte, il pranzo alle nove di sera, e la mattina si svegliano a mezzogiorno, per cui la colazione è quello che per noi normali è il pranzo». E conclude: «E alla fine ogni parola vale l’altra, con prima e seconda colazione. Ancora una volta l’inglese si rivela più preciso. Insomma, posso prendere in giro il mio amico, o ha ragione lui? Farò ammenda, nel caso...».
In questo come nei casi precedenti, i termini variano a seconda degli usi regionali. L’inglese non è più preciso, la nostra storia linguistica è diversa. Siamo arrivati tardi all’unità politica, l’unificazione linguistica è venuta ancora dopo: i dialetti, frutto prezioso della nostra civiltà, variano da zona a zona e influiscono sull’italiano.
La variazione non si manifesta solo in aree diverse e tra loro lontane, può esserci anche nella stessa regione. Il ‘formaggio di pasta grassa e morbida’ in Lombardia si definisce a volte crescenza a volte stracchino (quest’ultima sembra oggi prevalere). In molte località del Salento l’‘involtino di interiora di agnello attorcigliato a forma di gomitolo e arrostito al forno’ si definisce gnummarieddu (con le varanti gnemmarieddu, gnimmarieddu, ecc.); in altre turcinieddu. L’etimologia spiega la variazione: nel primo caso la base latina è glomerus ‘gomitolo’, nel secondo torquere ‘attorcigliare’. Il concetto è lo stesso: gli intestini di agnello si attorcigliano come per formare un gomitolo, l’immagine ha generato il nome. A Galatina e a Soleto si usa il termine mboiacata per designare un ‘involtino di interiora di agnello’ di dimensioni più grandi; la base è ancora una parola latina di identico significato involvere ‘avvolgere’. Nel brindisino-tarantino (Ceglie, Grottaglie, Mesagne, Manduria) per indicare l’involtino di agnello (di dimensioni variabili) esistono le forme marro, marretto e quelle collegate cazzimarru, cazzumarru, con riconoscibilissima allusione all’organo genitale maschile. Così funziona il cervello: prepariamo un cibo, facciamo riferimento al gesto dell’avvolgere, il dialetto continua le parole latine che rendono quel gesto (glomerus-gnummarieddu, torquere-turcinieddu, involvere-mboiacata), oppure guardiamo la forma del cibo e ci viene in mente l’organo maschile (cazzimarru). Non è meraviglioso il funzionamento della mente? Non è straordinario vedere come gli uomini creano le parole di cui hanno bisogno?
p.s.: per domande o riflessioni sulla lingua italiana (e sui dialetti) scrivete a: segreteria@quotidianodipuglia.it. I temi più stimolanti e di interesse generale saranno commentati su questo giornale.

 
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