Edoardo, l’amarcord di una città in ritardo

Edoardo, l’amarcord di una città in ritardo
di Claudia PRESICCE
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Venerdì 1 Dicembre 2017, 20:32
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[/FIRMA]Edoardo è mio. Io ricordo quel normanno abbronzato dagli occhi belli con l’energia di chi può fare grandi cose, l’indolente perdigiorno dalla risata indecente, emarginato e deriso, matita svelta come la lingua. Edoardo è anche tuo che ne parli come “del matto buono” che si aggirava nelle strade della tua infanzia. E poi è di chi, ripescandolo nella memoria, lo ricorda come “cordiale monumento alla solitudine passare sulla battigia di San Cataldo”. Edoardo è poi di tanti che divisero con lui un bicchiere di vino in piazza Sant’Oronzo o una birra in zona Mazzini, ed è anche di chi (ma sono in pochi) lo trattò come un artista, rispettò la sua indole inquieta e pagò i suoi fogli dipinti. Moltissimi, che oggi li espongono ben incorniciati nei salotti leccesi, quei fogli li hanno avuti regalati per pochi spiccioli o per un ultimo bicchiere. L’arte però, ogni tanto dobbiamo ricordarcelo, è un’altra cosa (senza valore non c’è rispetto).
Tornando ai ricordi, potrebbe intitolarsi “Edoardo, io ti ricordo…” il libro delle firme dedicato a De Candia che si incontra all’ingresso della mostra a lui dedicata “Amo. Odio. Oro” che chiuderà i battenti domani, 30 novembre, presso San Francesco della Scarpa a Lecce.
C’è una Lecce trasversale, divisa tra varie generazioni, che racconta i propri ricordi legati all’artista che si aggirava con andatura imprudente in una provincia incapace di abbracciarlo: sin dagli anni Cinquanta e fino al 1992, anno della sua morte, la figura di Edoardo ha fatto parte, in un modo o nell’altro, del mondo immaginifico di questa piccola città del Sud.
C’era Edoardo innamorato del mare in cui si riconosce chi ha condiviso lo stesso ardore, quello delle notti brave e di una tendenza ribelle giovanile degli anni Sessanta e Settanta che nella Lecce borghese alla fine attecchì poco. E l’Edoardo degli anni Ottanta, protagonista della primissima movida al Raphael o Corto Maltese. Qualcuno scrive: “Io lo ricordo benissimo al bar Martinica, sugli scalini di Sant’Irene, sul corso, a San Cataldo”, è come un mantra che si ripete in tanti altri messaggi lasciati alla mostra.
L’artista, di cui sono stati esposti dipinti, schizzi, fotografie e ricordi in questo allestimento curato da Brizia Minerva e Lorenzo Madaro, appare nei commenti più conosciuto in realtà come “personaggio” che per le sue doti pittoriche. Non è un caso se i suoi amici del celebre quartetto Tonino Caputo, Ugo Tapparini e Antonio Massari, che insieme a lui coltivarono il sacro fuoco dell’arte, e anche il “ragazzo rondine” Ercole Pignatelli, odiarono tutti l’indolenza di Edoardo quanto amarono il suo talento rimasto in gran parte inespresso. E per questa dannazione che bloccava la sua grandezza oggi di Edoardo restano soprattutto le opere tratteggiate in poche pennellate che i suoi amici di allora chiamano “scarabocchi”. La mostra offre uno spaccato di questo mondo tipicamente edoardiano, dei suoi colori infiniti, dei suoi temi ricorrenti, il suo afflato erotico verso un femminile infestante, le sue immagini che raccontano molto del suo stare al mondo.
<CF4001>Ma molto altro non si può restituire di lui. Sapeva disegnare Edoardo, e sapeva dipingere davvero, ma la voglia la perse per strada e in tanti rimpiangono “i suoi lavori più belli” bruciati in un famoso folle rogo del 1954 su consiglio dell’amico Francesco Saverio Dòdaro.
Non è casuale che la sua arte oggi sia meno popolare del personaggio, sia stata meno indagata, studiata, catalogata, capita anche perché evidentemente monca e inflazionata per volere (o sorte) dello stesso autore, per la sua resa. Dopo venticinque anni dalla morte finalmente in questa mostra si riparla dell’artista esclusivamente leccese, o meglio dannatamente leccese perché la sua città di nascita ha contribuito a soffocare i suoi sogni. “Nemo propheta in patria” sembra scritto per Lecce e i suoi profeti.
Edoardo aveva imparato molto da Michele Massari, padre dei suoi amici vicini di casa Antonio e Annamaria, e aveva imparato la poesia da Vittorio Pagano (lo zio del suo amico Tapparini), ma per la sua città presto e per sempre De Candia fu l’ubriacone, il matto del villaggio, quello che andava a piedi a San Cataldo.
Eppure oggi, a distanza di un tempo che lava via gli spigoli, quello che emerge dai ricordi dei tantissimi visitatori della mostra, in gran parte è una carezza della gente. “No economia su Edoardo” si legge in una pagina intera che sa d’amore. Molti scritti sono di chi, anche solo per il bicchiere della sera in un bar del centro, si è fermato ad ascoltarlo e guardarlo nei suoi occhi di sete d’amore. “Ho il ricordo di Edoardo al Corto Maltese, più di qualche volta abbiamo bevuto un cicchetto insieme” e poi per sdebitarsi l’artista “mi regalò dopo qualche giorno un bel culo, come diceva lui…”: ovviamente era un suo schizzo e anche questo ricordo lasciato sul libro della mostra, cambiando le circostante, è sovrapponibile a tanti altri.
Lui ci ha regalato la sua arte, e noi? Oggi lo sentiamo nostro questo “angelo beffardo” scalzo e nudo, e in questa mostra c’è l’ideale abbraccio della sua città, in deplorevole ritardo, ma c’è. Oggi lui è anche di chi di uno dei suoi mille schizzi tratteggiati in pochi minuti ha fatto un protagonista della sua casa e della sua vita. Un’icona della nostra storia a cui oggi la città guarda con affetto, finalmente. Però tutto questo Edoardo non lo sa.
“Una leggenda che la provincia si rifiuta di celebrare, preferendo avvilirla nelle cronache delle questure e dei referti medici – scrisse Pagano di lui nel ’65, come si legge dal catalogo (prezioso per aver recuperato riflessioni e menti scolorite dal tempo) – egli ha un sorriso sulla bocca, la sua mite difesa. Ma è troppo difficile capire un’eresia che non aggredisce, che si consuma in bossoli di dolcezza. Non la si perdona”.
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