Edoardo, l'artista che visse l'avanguardia

Edoardo, l'artista che visse l'avanguardia
di Brizia MINERVA
6 Minuti di Lettura
Sabato 17 Giugno 2017, 22:36 - Ultimo aggiornamento: 18 Giugno, 12:31

Edoardo De Candia è stato un grande attraversatore. Il senso fisico del suo andare, sempre a piedi, con un rotolo di bristol sotto braccio, è riflesso della sua arte, un’arte che parte ma non ha idea dell’approdo. È il transito che fa svanire la garanzia del risultato. È un atteggiamento eroico ed erotico, vitale, di spostamento e di conquista perenni del presente e allo stesso tempo denso di nostalgico passato. Una mancanza di futuro che lo ha portato a fagocitare e attraversare le avanguardie, dal novecentismo all’informale e all’espressionismo astratto, dal primitivismo al fauvismo, suprematismo, astrattismo, cubismo e postcubsimo fino al lettering e all’espressione verbovisiva.
In questo senso De Candia è uno dei più autentici interpreti della Transavanguardia.
Nel corso di questo transito attraverso i linguaggi dell’arte costante è la sua straordinaria passione pittorica, forza vitale e liberatoria del colore, fluido segno matissiano, distacco ironico e dissacratore. Dotato di una bussola interiore che lo porta al cuore dell’attualità sin da quando ventenne con l’amico e artista Francesco Saverio Dodaro dà fuoco ai suoi quadri realizzati fino a quel momento. Un falò eretico, un rito liberatorio che segna l’inizio di un nuovo corso. In seguito i due prenderanno strade diverse: Dodaro consuma nelle fiamme le sue tele astratte per passare alla sperimentazione verbo-visiva.

 
De Candia distrugge le sue creazioni novecentesche, per dare vita ad un nuovo momento di introspezione e ricerca, si chiude in biblioteca, studia e disegna, legge di tutto, da Platone a Sartre, da Cervantes a Kafka, da Huxley a Neruda - come racconta Antonio Massari nella biografia dell’artista - creando da sé un mondo dissennato di speciali visioni. Ha una capacità speciale di assorbire immagini e informazioni. Impara da solo la storia dell’arte che gli serve per il suo lavoro sfogliando libri e memorizzandone le illustrazioni: “Io so, tutti mi piacciono. Io so Picasso e Michelangelo. Klee, Mirò, Braque. Io so il mistero…” dirà in un’intervista del 1984.
Nato a Lecce nel 1933 in una famiglia semplice, il padre è una guardia carceraria, Edoardo, dopo le elementari e bocciato alla prima avviamento, inizia il suo apprendistato nel laboratorio di cartapesta di Gaetano Guacci. È la sua prima formazione artistica con quella acquisita da Michele Massari pittore con particolare vocazione novecentista. Massari oltre ad essere vicino di casa dei De Candia, in via Montesabotino nel quartiere leccese di San Pio, è anche il padre di Antonio e Annamaria, primo amore di Edoardo, entrambi i suoi amici più cari e artisti a loro volta. A far parte della compagnia Ercole Pignatelli, Tonino Caputo, Ugo Tapparini, Carmelo Bene e dopo, dagli anni Sessanta e Settanta, Rina Durante, Paola Re, Franco Gelli e altri che saltuariamente si univano, tutti animati dal fuoco sacro dell’arte, sempre in bilico tra salvezza e dannazione in una Lecce accogliente ma puntuale traditrice di ogni sogno irrequieto di modernità.
Per Lecce e il Salento sono anni fervidi; riviste letterarie come l’Albero di Comi, l’Esperienza poetica di Bodini, il Campo di Lala-Bernardini, il Critone di Pagano.
Sul piano artistico c’è ancora Geremia Re, con un ispirato novecentismo, Lino Paolo Suppressa che si cimenta in soluzioni post-cubiste, Ciardo perso nel suo appassionato paesaggio, Nino Della Notte impegnato in una pittura moderna e aggiornata e così Aldo Calò, suggestionato da biomorfismi alla Henry Moore. Ma la vicenda artistica di Edoardo è tutta fuori da questa dimensione.
Dopo il falò Edoardo va a Milano insieme a Ercole Pignatelli che lo ospita nella sua casa per alcuni mesi. Pignatelli è un artista talentuoso e determinato, sa come muoversi nella Milano degli anni Cinquanta, non sbaglia un colpo, intreccia rapporti con gli artisti e i galleristi che contano nel mondo dell’arte, diventa ben presto un artista quotato. Ai suoi occhi uno come Edoardo è un disertore. Uno che guarda il mondo, non l’accetta, non agisce, abita nella sua riserva mentale, nella lateralità, in un altrove. Si lascia andare ad un pigro bighellonare attorno al “Giamaica” in via Brera, a due passi dall’Accademia, luogo mitico, ritrovo di artisti e intellettuali, di novità e importanti diserzioni: vi sono Crippa, Dova, Fontana, Arbasino, Nanni Balestrini, Piero Manzoni, Bay. Edoardo lega con Giorgio De Gaspari, illustratore della Domenica del Corriere, lo nota Lucio Fontana che ne percepisce la genialità e gli compra, per aiutarlo, alcuni disegni. Ma è la fame. Il padre deve salire a Milano pagare i debiti e riportarlo a casa. È in questo momento che matura l’idea di rinchiudere il figlio nell’ospedale psichiatrico.
Lecce ora è per Edoardo una gabbia mortale, un luogo dal quale fuggire. Riparte per Torino poi di nuovo a Milano, dove De Gaspari gli procura un posto a Londra presso una scuola privata di pittura in cerca di un artista italiano. Naturalmente non funziona, viene presto cacciato via per non avere rispettato le regole dell’ospitalità, come egli stesso racconterà, tra larghe risate. Da Londra porta due piccole abitudini: la doccia e il tè alle cinque. In questo periodo, e siamo intorno al 1956, una concentrazione illimitata di esaltazioni e frustrazioni attraversano la mente dell’artista. Matura la sua sana follia e prende forma l’immagine di Edoardo ingabbiata nel personaggio, “il cavaliere senza terra” secondo la splendida definizione che ne dà Antonio Verri, suo amico poeta, e nella città perbenista. “Lecce, l’instabile donna allegra e leggera che conosciamo: mentre da un lato celebrava, dall’altro prendeva i provvedimenti necessari...”.
Hanno inizio le sue lunghe passeggiate nudo a San Cataldo, l’ostentazione del suo corpo, vere e proprie performance. Il furore di un sacro erotismo. Le lettere espresse in forma di urlo a tutto campo sulla tela dopo il suo internamento in manicomio. Le marine, orizzonti solcati da arbusti, linee essenziali e astratte dai segni espressionisti, con i colori diluiti nella stessa acqua salata, destinandoli a una inevitabile distruzione. Un rimarcare la caducità dell’arte in una semplice totale identificazione con la vita stessa come dissipazione, scomparsa di sé.
Edoardo muore a Lecce il 6 luglio del 1992 a 59 anni, dopo una deriva esistenziale segnata dall’alcol.
Una retrospettiva che si terrà a Lecce il prossimo 7 luglio nel complesso di San Francesco della Scarpa ne ricompone criticamente il lungo processo creativo che ha riconsegnato non opere effimere ma forme espressive a futura memoria.
Che è l’arte, ombra perenne di una vita breve.

© RIPRODUZIONE RISERVATA