Emanuele Carrére: le frontiere del racconto

Emanuele Carrére: le frontiere del racconto
di Ilaria MARINACI
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Domenica 18 Giugno 2017, 06:55 - Ultimo aggiornamento: 15:32
Si considera fortunato, Emmanuel Carrère, perché, nel suo lavoro, ha la possibilità di esplorare le varie forme della scrittura, passando con disinvoltura dai reportage giornalistici ai romanzi fino alle sceneggiature cinematografiche. A lui, uno dei più importanti autori contemporanei, per la prima volta in Puglia, ospite della rassegna “Incontri salentini”, che si sta svolgendo nel Capo di Leuca, piace semplicemente raccontare. La sua penna traccia sempre i contorni di personaggi e situazioni al limite: da Limonov, il dissidente russo protagonista della biografia romanzata che è considerata il suo capolavoro, all’uomo apparentemente tranquillo che ha sterminato l’intera famiglia in un caso di cronaca nera accaduto in Francia e ripercorso nelle pagine del libro “L’avversario”, divenuto anche un film. Come giornalista, Carrère è un maestro del reportage e si è addentrato nella Russia post-comunista di Putin, nella lacerata Turchia di Erdogan e a Calais, estremo nord della sua Francia, in un campo profughi chiamato “la Giungla”. «Quello che mi interessa – è solito dire – è poter scrivere un reportage esattamente nello stesso modo in cui scriverei un libro».
Il tema della rassegna che lei chiude oggi nel Salento sono le frontiere. Quale dovrebbe essere da parte dell’Europa l’atteggiamento giusto da tenere con chi si presenta ai nostri confini?
«Nell’opinione pubblica europea, vediamo un moto di generosità naturale e umana verso chi arriva dal mare, magari anche facendo naufragio, dall’altro, però, è presente anche un sentimento di diffidenza e repulsione. Ma noi cittadini dell’Ue siamo 500 milioni, non sarà certo un milione di migranti a provocarci qualche sbandamento. La crisi dei rifugiati può diventare un’occasione per l’Europa di mostrare quello che può essere e mi piacerebbe che le istituzioni la cogliessero, che vuol dire organizzarsi e non ripartire l’onere solo fra l’Italia e la Grecia».
Secondo lei, questa crisi ha fatto crescere i partiti populisti?
«Sì, io penso che l’emergenza dei migranti abbia fatto prosperare i populismi dappertutto, anche in paesi come la Polonia non direttamente interessati dal fenomeno. A questo proposito, ricordo una frase pronunciata una decina di anni fa da un ministro dell’Islanda, che ha su questa materia restrizioni molto forti. Disse: “Gli islandesi non sono razzisti ma non vorrei dare loro l’occasione per diventarlo”».
In questi giorni in Italia si parla di “ius soli”, il diritto di cittadinanza ai bambini nati qui da genitori stranieri o arrivati da piccoli. In Francia, questa legge esiste già da anni. Lei come la giudica?
«Sostengo questo principio che mi pare giusto e necessario, ma bisogna anche tener presente che si tratta di posizioni generose decise da chi non ha direttamente a che fare con le difficoltà legate alla presenza di numerosi stranieri nella strada in cui si abita. Faccio un esempio: a Parigi, c’è un quartiere di periferia che si chiama Port de la Chapelle, sulla strada per andare all’aeroporto Charles De Gaulle. È una grande bidonville dove vivono afgani, eritrei, siriani, in gran parte giovani uomini con convinzioni sessuali estreme e arretrate. Qui una ragazza non può circolare liberamente indossando una gonna o dei pantaloncini. Questo per dire che vanno bene le leggi, ma lo Stato deve anche farsi carico di queste situazioni in maniera strutturata senza lasciare l’iniziativa alla generosità individuale. Ormai sappiamo che non basta».
Cosa pensa del neoeletto presidente Macron?
«Io l’ho votato fin dal primo turno e credo che il voto per lui sia stato un voto di classe, dato da quella borghesia che non è vittima della globalizzazione. Ha avuto così tanti consensi e anche così tanta fortuna che se solo farà un quarto di quello che ha promesso sarà comunque un successo».
 
La storia del suo matrimonio, l’amore nato sui banchi di scuola per la sua professoressa, potrebbe essere degna di un romanzo?
«In effetti, il nostro attuale presidente è un personaggio romanzesco».
Qual è oggi il suo rapporto con Limonov dopo il successo mondiale del libro?
«Ho mantenuto un buon rapporto con lui. Il che vuol dire che, quando mi trovo a Mosca, vado a trovarlo per bere un bicchiere insieme e parlare un po’. Ma non lo definirei un amico, è cordiale ma resta a distanza. Lui ha una grande nostalgia dei tempi in cui si poteva capire chiaramente da che parte stare, perché c’era da un lato l’Occidente e dall’altro il blocco comunista, mentre adesso è quasi impossibile classificare chi governa gran parte dei paesi del mondo».
Come realizza i suoi reportage?
«Amo moltissimo farli e ho notato che ormai hanno tutti lo stesso sviluppo. Ci lavoro, in media, due settimane. Durante la prima, incontro persone che la pensano come me, per esempio gli intellettuali che difendono la democrazia in Turchia o i giovani che si dedicano al sostegno dei migranti a Calais o ancora gli oppositori di Putin in Russia. La seconda settimana, invece, passo tutto il mio tempo dall’altra parte, quindi, per dire, fra i sostenitori di Erdogan e Putin e fra chi non vuole i migranti a Calais e tiene per il Front National. Questo mi aiuta a non avere pregiudizi e ad avere accesso agli argomenti degli uni e degli altri in maniera diretta, per poter analizzare bene le situazioni e rendere l’inchiesta interessante».
Un metodo che usa anche per la letteratura?
«In un certo senso sì, perché il confine fra il giornalismo e la letteratura è molto poroso. Per esempio, il primo reportage che ho realizzato per la rivista “121” era su Limonov e, quando l’ho terminato, mi sono reso conto che c’erano ancora molte cose da dire. Così ho scritto un libro».
Cosa pensa della post-verità?
«In Francia se ne sta parlando, anche se non tantissimo. Rispondo citando una frase di Kafka che trovo straordinaria: “Io sono molto ignorante ma questo non significa che la verità non esista”».
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