Giovanna Marini: a Sud per ritrovare le radici della musica

Giovanna Marini: a Sud per ritrovare le radici della musica
di Claudia PRESICCE
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Sabato 4 Novembre 2017, 22:58
Un viaggio nella musica della terra del Sud, quando contadini e spaccapietre del Salento vivevano cantando la propria vita, con capacità vocali che oggi neanche con gli allenamenti più duri e tecnici si raggiungono: è il viaggio di 50 anni fa della regina della musica popolare italiana, Giovanna Marini, tra cantori e cantore di casa nostra e tra le loro anime.
La prima volta è arrivata in un Salento ignaro del valore della ricchezza che aveva in seno, quando alla fine degli anni Sessanta del ‘900, erano in pochissimi a coltivare la passione per la musica di tradizione orale. E, a distanza di mezzo secolo, dopo tanti altri viaggi nei canti della terra, la celebre cantautrice tornerà a ripercorrere quel cammino, seguendo gli stessi passi di quei giorni nei paesini della provincia di Lecce dove molte cose poi ebbero inizio. Si intitola “A sud della musica. Un documentario su Giovanna Marini” (per il quale è partito il 9 ottobre scorso il crowdfunding) ed è il documentario sull’artista, prodotto da Meditfilm Videoproduzioni di Galatina e diretto dal documentarista romano Giandomenico Curi, che in questi giorni seguirà il suo nuovo viaggio nel Salento.
Musicista diplomata in chitarra classica al Conservatorio Santa Cecilia di Roma, cantautrice, folk singer e compositrice generosa, con oltre cinquant’anni di esperienze musicali alle spalle, quando non viaggia è alla Scuola Popolare di Musica di Testaccio di Roma dove insegna, oppure in campagna, dove nei giorni scorsi raccoglieva olive.

Cominciamo dall’inizio signora Marini. Come nacque quel primo viaggio nel Salento che oggi si ripeterà nel documentario?

«Avevo appena scoperto la bellezza della musica di tradizione orale, detta anche “popolare”, e nel ’68 già lavoravo con il Canzoniere italiano e con le Edizioni del Gallo, oggi “Edizioni Bella ciao”. Dopo il diploma al Conservatorio, credevo che la musica fosse solo quella classica e che il resto fossero canzonette: scoprire il repertorio contadino fu per me una cosa strabiliante, timbri mai sentiti e voci che facevano cose incredibili. Venni nel Salento su consiglio di Rina Durante che mi invitò a cominciare il mio viaggio da qui e conobbi un gruppetto di musicisti che allora suonavano intorno a lei, il primissimo Canzoniere Grecanico. Conobbi Luigi Chiriatti, Luigi Stifani e tanti altri. Andavo in giro con una mia amica sedicenne che sua madre, Miriam Mafai, mi aveva affidato perché non aveva voglia di andare a scuola. Avevo comprato una macchina per questi viaggi, una specie di bidone, e siamo andate a fare ricerche in giro per il Salento un po’ all’avventura, mangiando fichi d’india e dormendo anche in macchina. Fu un viaggio bellissimo».

Che cosa trovò nella nostra musica che la colpì particolarmente?

«Chi ha studiato musica classica conosce il valore della voce lirica tecnica, con grandi vibrati e molto studio. Di fronte ai pastori siciliani e sardi e ai contadini salentini e pugliesi, o a Stifani che con il violino da autodidatta faceva cose che solo chi non ha studiato può fare, fischi e gracchiamenti incredibili, ho scoperto un mondo nuovo e importantissimo. Il Salento poi, così vicino a Grecia e Albania, conserva le scale musicali originali del canto popolare che partono dall’alto e vanno verso il basso: pensiamo ad esempio alla strofa musicale di “fimmine fimmine ca sciati allu tabaccu…”, va da note alte a quelle basse. I modi greci erano così, e sono stati i latini, Lucrezio Caro e gli altri, ad invertirli quando nel tradurre hanno scambiato una parola greca per un’altra e la scala è stata capovolta. Da allora è stata fatta partire dal basso, ma in realtà è molto più naturale farla dall’alto, d’altronde i greci sono stati i primi ad organizzare la musica scritta e non sbagliavano».

Che cosa ha ancora da dire questa musica? È un modo per portare la storia nella contemporaneità?

«È proprio questo, e qui nel Salento ci sono gruppi molto attenti a non stravolgere la tradizione, a fare un recupero attento, evitando di aggiungere cafonate “alla Canale 5” per intenderci. Si può rifare anche senza copiare esattamente, anche quello sarebbe un falso, ma rispettando la purezza. E comunque oggi abbiamo voci diverse, gli studenti o chi oggi si occupa di questa musica non ha certo la voce di contadini o spaccapietre che ogni giorno facevano quei canti magnifici che Carpitella registrò. Erano molto allenati perché cantavano ogni giorno, e ognuno aveva le sue tecniche per non perdere la voce. Bisogna lavorare molto sulla propria voce per portare quello stesso colpo allo stomaco che loro riuscivano a fare con facilità e dando un’emozione forte. Facevano dei battimenti e suoni duri che emozionavano molto, e noi per fare la stessa cosa rischiamo di sembrare sforzati, dobbiamo cercare degli incroci di note molto vicine, con intervalli più stridenti per avere quegli effetti e dare quelle emozioni. In fondo questa è musica nata e cantata per suscitare emozioni, non ragionamenti».

Uccio Aloisi, che lei ricorda, diceva che per la sua generazione cantare certe canzoni era naturale perché raccontavano la loro vita, quelle realtà. Oggi quei contenuti hanno un nuovo valore?

«Sì, secondo me noi dobbiamo recuperare quello spazio importantissimo che sta tra noi e gli altri. Questo spazio è stato troppo riempito dalla tecnica e dalla scienza con stimoli e cose mirate ad invitarci a comprare e consumare, allettare la gente ad avere un’effimera soddisfazione, ma questo toglie la curiosità verso i nostri vicini di cui non sappiamo più niente. La soddisfazione immediata, fisica e non intellettiva, la consuetudine alla virtualità, riempiono questi spazi che prima erano invece pieni di emozioni e di gente con passioni e sentimenti. Oggi è tutto finalizzato a vendere, e il resto, se c’è, mira alla parte del cervello più superficiale. Il canto popolare un tempo raccontava le storie e metteva in comunicazione con le storie degli altri, con gli altri: può ancora aiutarci a farlo e a riprenderci quello spazio di comunione».

La musica popolare oggi, anche la Notte della Taranta che lei conosce e ha vissuto, è diventata anche un fenomeno pop. È più importante la popolarità o lo studio di questi fenomeni?

«È vero, oggi questi fenomeni diventano pop, i ragazzi ballano la pizzica senza neanche sapere che cos’erano le tarantolate. Ma direi che serve anche la popolarità, sono importanti entrambi gli aspetti. Lo studio è certamente fondamentale, ed è importante però lasciarlo vicino alla terra, perché nei cenacoli universitari un fenomeno come questo rischia di essere snaturato. Mi ricordo che Ernesto De Martino teneva i suoi studenti, di cui la maggior parte femmine, a vivere in condizioni estreme per stare vicino alla gente. Una sua studentessa fu costretta a stare per sei mesi in un paesino della Lucania, in una stanzetta piccola e poverissima, dove moriva di freddo, ma era vicina alle persone. Lo studio accademico è spesso troppo lontano dalla terra, invece è importante una comunanza di anime. Ricordo che io andavo in giro con un taccuino, non avevo neanche un registratore, scrivevo le note e le strofe dal vivo, poi le correggevo riascoltando altre variazioni, ma avevo il tempo di vivere le persone che studiavo. Ci mandavamo le cartoline e scendevo al Sud per matrimoni, battesimi e ogni occasione in cui c’era questa musica».

Si possono ancora fare rivoluzioni con la musica?

«Hai voglia! Si devono fare. Intanto bisogna cominciare a far capire ai ragazzi che la musica non è avulsa da tutto il resto, non è fuori, ma dentro quello che accade. E spiegare che raccontare quello che ci succede con la musica è una cosa meravigliosa, le battaglie di Bob Dylan e di altri cantori lo dimostrano. C’è molto da fare, anche nell’ambiente stesso dove i musicisti classici vivono un senso di privilegio ormai del tutto fuori luogo che va cancellato, sono fuori dal mondo che fa la “guerra”. È un terreno quello della musica in cui si può ancora lavorare molto, si deve agire e, anche se alla musica tanto è stato decurtato e non si vive bene, non dobbiamo arrenderci. Nel ’68 tanti schemi vecchi, oggi recuperati, erano stati abbattuti, ma di cose buone quell’anno ne abbiamo fatte tante e anche questo andrebbe ricordato».
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