Le parole e le lacrime dei cuori spezzati
I versi delle poesie e delle canzoni

Le parole e le lacrime dei cuori spezzati I versi delle poesie e delle canzoni
di Irene SABER
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Lunedì 30 Gennaio 2017, 13:01
Cominciamo dal titolo: “Che non si muore per amore”. È un verso di Mogol che ha più di quarant’anni, la canzone “Io vivrò” ancora adesso bellissima da ascoltare, specialmente nella sua versione originale con la voce di Lucio Battisti. La frase si completa con “…è una gran bella verità”, e, come si può intuire non enuncia una certezza, bensì il contrario: suona beffarda, o almeno ironica. Significa “sarà anche vero che non si muore per amore, però…”.
Però si soffre, e quanto si soffre. Un dolore che sembra sempre insopportabile e qualche volta lo è davvero. Lo sanno praticamente tutti, anche gli adolescenti alle prime cotte, lo sanno gli adulti, e più si invecchia più si capisce che di soffrire per amore non si smette mai.

Dopo la bellissima antologia “Che dice la pioggerellina di marzo” in cui sono state riunite alcune poesie della scuola elementare di cinquanta, sessanta e più anni fa, quando i bambini erano costretti a impararle a memoria acquisendo anche attraverso quelle rime baciate dai contenuti molto semplici una formazione da cittadini italiani (quanta patria c’era, in quelle poesie. E quanto timor di Dio. E con la patria, il timor di Dio, anche la famiglia, il dovere, la morte, ma pure l’amore per la vita…), ora sforna un’altra formidabile idea, quella di raccogliere alcune liriche dedicate all’amore interrotto, al dolore causato dalla perdita sentimentale, percorrendo i secoli da Omero a Luciano Ligabue, felicemente unendo la poesia alla canzone.
Una love story che finisce nella maggior parte dei casi si lascia dietro un vinto e un vincitore. Vince, se così si può dire, chi esce prima dell’altro (o dell’altra) dalla condizione amorosa avendo quindi l’indipendenza psicologica e l’autonomia emotiva per fare a meno del partner. Anzi, in genere è proprio chi raggiunge questa condizione a decidere di spezzare, con determinazione, il rapporto.
Il vinto, invece, resta sul terreno. Gli sembra inconcepibile continuare da solo (o da sola) una strada fino a quel momento percorsa insieme.

Ecco la sintesi: “Non posso più essere contento – scrive per esempio Federico Garcia Lorca –  per tutti i miei giorni devo portare/ nella mia nostalgia la tua immagine/ Son proprio tuo”.
Parole bellissime, di totale resa all’amore anche se, va detto, e pur se in forma passiva, nella frase c’è lo sciagurato concetto della proprietà, quello che ispira tante tragedie di oggi. Amare significa davvero possedere o essere posseduti?



Lasciamo la domanda senza risposta e proseguiamo con la saggezza di Catullo. Parliamo di qualche decina d’anni prima di Cristo e già il poeta sottolineava che in amore non si è proprietari di un bel niente: “Ah povero Catullo cosa speri?/ quando una cosa è finita, è finita./ Come il sole brillarono i tuoi giorni,/ quando colei che amasti come/ nessuna al mondo mai sarà più amata,/ diceva vieni e tu, pronto correvi./ Nessun gioco d’amore ti negava:/ ciò che volevi tu, lei lo voleva./ Come il sole brillarono i tuoi giorni!”.
A sfogliare i versi raccolti nel libro da Piero Manni (è lui il curatore del libro, come già di “Che dice la pioggerellina di marzo”), si scopre però che la saggezza di Catullo nelle cose d’amore è rara. Le corde che vibrano prevalentemente sono altre, e scorrendo volutamente alla rinfusa, via via, le parole di Tommaso Campanella come di Corrado Govoni, di Aldo Nove come di Chico Barque, di Sergio Corazzini come di Saffo, si scopre che a prevalere è l’amarezza inconsolabile, il senso del lutto e della morte, e, ahinoi, perfino l’invocazione di una possibile vendetta, non sempre mortale come suggerisce il “Canto Salentino 1” che si conclude “Quandu l’anellu a manu li calara/ ‘ncora la ucca a risu me facìa./ Quandu la ucca sua li disse sine/ chiangiti occhi miei nun è chù mia”. (Quando le infilarono l’anello al dito/ ancora mi sorrideva/ Quando dalla bocca le uscì il sì: piangete occhi miei, non è più mia).

Insomma difficile riuscire a sovvertire la fine di un amore. L’abisso si spalanca, e quando ci si cade dentro si ha la certezza di non essere più capaci di uscirne. Rara, anzi rarissima, la reazione di Renato Carosone che nella canzone “Chella là”, ride e fa l’unica cosa utile e possibile: “me ne piglio n’ata cchiù bella/ e zetella restarrà, chella llà…”.
“Io mi sono talmente trasfuso nell’altro - scrive al contrario Roland Barhes - che, quando esso mi viene a mancare, non riesco più a riprendermi, a ricuperarmi, sono perduto per sempre”.


Insomma, questo pubblicato da casa Manni, come già “La pioggerellina” è davvero un libro curioso, perché lo si può leggere da soli, ma forse diventa ancora più godibile se letto in compagnia. Un’esperienza così largamente condivisa come le pene d’amore - le donne lo sanno più degli uomini, ma anche gli uomini ormai lo sanno benissimo - è un terreno di fertile scambio. Favorisce la comunicazione e la conversazione, l’intesa e la sincerità, la confessione e l’ascolto. Ognuno avrà la sua da dire, ma nonostante la larga varietà di reazioni che la fine di un rapporto sentimentale può scatenare, è difficile non concordare con il titolo: uscirne è possibile. Non si sa in quanto tempo, e con quante cicatrici, ma alla fine se ne esce sempre, magari coabitando con qualche ombra, come ci lascia capire Michele Mari, da “Cento poesie d’amore a Ladyhawke”: “Nella mia testa/ c’è sempre stata una stanza vuota per te/ quante volte ci ho portato dei fiori/ quante volte ci ho portato dei mostri/ Adesso ci abito io/ e i mostri sono entrati con me”.
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