Nello sguardo giusto, i ritmi della natura

Nello sguardo giusto, i ritmi della natura
di Claudia PRESICCE
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Mercoledì 1 Febbraio 2017, 21:07
Il senso dell’attesa è il vero estraneo dei giorni nostri. L’esercizio della pazienza è del tutto inattuale per un’umanità che vola via veloce, che non ha tempo di fermarsi mai ed ha perso quasi del tutto la voglia di riflettere su se stessa con la temperanza e la calma necessarie. Anzi, in genere ne ha paura, teme l’impegno eccessivo della mente, il coinvolgimento viscerale che comporta una messa in discussione di sé, teme l’equilibrio nel bilico di un tempo lungo.
Ogni tanto però ci sono dei freni che obbligano a rallentare il volo, e ci invitano a ricordarci di vivere anche mentre si è impegnati a correre. Sono emozioni che, nel bene o nel male, inseriscono nuove marce o fanno sterzare l’inseguimento del nulla verso altre mete. Sono storie che ci costringono a fare i conti con la nostra, di storia. Oppure sono colori, suoni, immagini che risvegliano quella parte istintiva, animale, sepolta sotto quella razionale, sotto le scorze delle sovrastrutture che abitiamo ogni giorno.
È lì che rincontriamo il senso dell’attesa.
Ce lo riconsegnano cercatori di storie, di colori, di luci, di racconti dei luoghi. L’arte, nel suo senso più ampio, è una delle fughe più immediate dalla velocità innaturale che cadenza i nostri ritmi.
Fanno pensare proprio all’attesa le immagini del libro di Emilio Nicolì “Oltre lo sguardo” (Fondazione Terra d’Otranto, collana “Scatti d’autore”). È facile fotografare un bel paesaggio, un cielo nuvoloso, o un mare con onde piene e foriere di bellezza. Ma soprattutto quando il paesaggio è consueto per chi scatta l’immagine, ecco che l’arte si palesa nella ricerca dell’attimo giusto, della luce che accarezza la terra, in quel modo, solo in quell’unico istante.
Chi sa andare al di là del senso della vista, chi oltre a guardare “vede” e cerca di trovare la propria prospettiva delle cose, sa attendere. Indugia cercando di trovare l’espressione perfetta, lo scatto in questo caso.
L’autore delle immagini che in piccolissima parte riproduciamo in questa pagina, è un fotografo autodidatta, salentino, classe ’64, biologo in altre faccende impegnato per lavoro, ma costruttore di immagini per pura passione. La sua voglia di raccontare, semplice e autentica, senza tanti contorti percorsi mentali o sperimentalismi tecnici, lo spinge, come confessa lui stesso, a proseguire una personale ricerca della “foto perfetta, sperando di riuscirci”.
Le prospettive di queste fotografie, con le loro riservate carezze luminose, sono quindi “oltre”, come recita il titolo.
L’alba che tinge di arancio il cielo di Roca racconta una sapiente ricerca di un momento irripetibile, in cui il Sole disegna la geografia della costa e di quella di fronte, governa la tavola cromatica in maniera prepotente, diventa padrone del cielo e del mare. La spiaggia di Torre dell’Orso, le “Due Sorelle”, svuotata dal vociare, dal calpestio, dalla prepotente “occupazione” umana alla quale è sottoposta racconta un’altra attesa. La “notte di stelle al Faro della Palascìa” è una favola laboriosa cucita tra natura e sogno, tra realtà e creatività. “Una brutta serata” a Sant’Andrea è l’incredibile restituzione di un doppio fulmine in mare, dove le due saette che lasciano una lunga scia luminosa in mare sembrano strali degli dei. E così via.
Scogli che emergono dall’acqua come bionde sirene, ulivi che cercano l’oro del sole, grano e gramigna che seguono un vento che ha i colori di una tela della “scuola napoletana”: Nicolì sembra scegliere orizzonti senza fine e confine per non concludere mai il discorso che apre. Non si può limitare con una cornice un luogo, va lasciato aperto e libero di sciogliersi intorno, continuare. Così queste immagini rubano l’anima di quel momento, il regalo di quella luce, ma la lasciano subito libera di andare e raccontare. Il Salento diventa così oggetto d’amore, di dolore per la nostalgia che provoca anche solo l’idea della lontananza, generatore di silenziose aspettative da condividere grazie alla possibilità immaginifica data dalla fotografia “giusta”. Quello dell’autore però è lo sguardo solitario di chi questo lembo di terra, soprattutto quella che guarda ad est, la conosce bene. Il silenzio del suo respiro confuso con il vento, le ombre e i colori cangianti qui si sente tutto.
Si legge nell’introduzione di Pier Paolo Tarsi: “Quello che uno vede dall’obiettivo di Nicolì non è l’approdo che si manifesta a colui che giunge dal mare ma è la varietà infinita – malinconica o trasognata – di un affacciarsi dai confini di questa terra sull’altrove, è un respiro intimo, una parentesi meditativa sulle estremità prima del ritorno alla dimora, al quotidiano legame con la propria gente e con la trama delle proprie faccende”.
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