Ozpetek-Winspeare, l’amore per il Salento raccontato al cinema

Ozpetek-Winspeare, l’amore per il Salento raccontato al cinema
di Renato MORO
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Domenica 15 Ottobre 2017, 19:53 - Ultimo aggiornamento: 16 Ottobre, 14:33
Il tramonto visto dal Corno d’Oro, a Istanbul, è uno tsumani di luce rossa che avvolge ville, moschee, minareti e palazzi e incanta i turisti che affollano le terrazze dei ristoranti. Da queste parti, 564 anni fa, migliaia di schiavi trascinarono su assi di legno le navi della flotta di Maometto II e permisero agli Ottomani di saltare l’enorme catena in ferro che chiudeva l’accesso e assediare Costantinopoli. È qui che si affacciano le case in legno di Fener, uno dei quartieri più vecchi della città. Ricco di storia e chiese sopravvissute all’islamizzazione, poco frequentato dai turisti che a Istanbul sono attratti soprattutto dalla Moschea Blu e dal Gran Bazar dove i venditori di tappeti non contrattano se non ti siedi con loro a sorseggiare il tè. Strade strette, profumo di spezie e vociare di ragazzini. Ferzan Ozpetek, il regista di “Mine vaganti” e “Allacciate le cinture”, ha frequentato quelle strade fino ai 17 anni compiuti. Il papà voleva mandarlo a studiare negli Stati Uniti, ma alla fine vinse la mamma e il giovane Ferzan prese l’aereo per Roma con in tasca i soldi per iscriversi alla Sapienza dove avrebbe studiato  Storia del cinema. Era il 1976 e l’Italia era il Paese in cui la Corte di Cassazione aveva da poco condannato alla distruzione delle pellicole un film come “Ultimo tango a Parigi”, diretto da Bernardo Bertolucci. Troppo sesso. E soprattutto sesso strano, non benedetto dalla Chiesa.
Era l’anno, anche, in cui il piccolo Edoardo Winspeare spegneva le sue prime undici candeline sulla torta alla festa del compleanno. Depressa, Tricase, Salento. Piantagioni di tabacco, distese di foglie messe a seccare, ulivi per l’olio e viti per il negroamaro che in gran parte raggiungeva il porto di Gallipoli e con le navi viaggiava verso le cantine del Nord per dare forza ad altri vini. Edoardo Carlo Winspeare Guicciardi era nato in una nobile famiglia che nei primi anni del 1700 aveva lasciato l’Inghilterra per stabilirsi a Napoli. Oltre un secolo dopo il passaggio nel Salento. Quando Antonio, duca di Salve, sposò Emanuela Gallone. La passione per il cinema lo ha accompagnato sin da ragazzino, coltivata durante gli studi a Firenze e poi raffinata col diploma ottenuto a Monaco.
Tricase e Istanbul, fra traghetti e autostrade, sono distanti quasi 1.300 chilometri. Due mondi diversi, culture diverse ma due percorsi destinati in qualche modo a incrociarsi perché uno e l’altro nei loro film raccontano il Salento. Winspeare un po’ di più, perché è la sua terra. Ozpetek nei due film capolavoro che ha girato a Lecce. Un duello a distanza, immaginario, fra chi lo racconta meglio. Ma anche molti punti in comune, più di quanti si possa immaginare.
E dire che Ferzan - dal 2010 cittadino onorario di Lecce - nel Salento non ci voleva venire. Nel 2001, quando firmò “Le fate ignoranti”, viveva tra la sua casa di Roma e Istanbul. Lo chiamarono, un giorno, da Otranto. «Buongiorno, vorremmo averla al nostro Festival per consegnarle un premio...». Lui, il maestro, rispose controvoglia. Un premio sconosciuto assegnato da gente sconosciuta, l’ennesimo di una lunga serie e per giunta in un posto così lontano, dimenticato da Dio. Ci misero un bel po’ di tempo per convincerlo. O, meglio, per convincere Gianni Romoli, sceneggiatore e produttore molto vicino al regista e suo consigliere. Alla fine accettò. E fu un colpo di fulmine: Ferzan raggiunse Otranto, la città che cinque secoli prima aveva resistito fino al sacrificio ai soldati di Ahmet Pascià, turchi come lui, e se ne innamorò. Dei bastioni, della quiete di Masseria Montelauro, degli otrantini. E poi di Lecce, del Salento. «Questa è la mia seconda casa», dirà qualche anno dopo in occasione dell’uscita di “Allacciate le cinture”.
Edoardo Winspeare non ha avuto bisogno di inviti per conoscere il Salento, perché il Salento è la sua terra. Nel 2004, quando a Palazzo dei Celestini, si esaurì l’esperienza di Lorenzo Ria, il presidente che aveva lanciato lo slogan “Salento d’amare”, s’inventò “Coppula tisa”. L’associazione si occupa della salvaguardia del territorio e soprattutto di lotta all’abusivismo, ma a differenza di tante altre ha come obiettivo la raccolta di fondi per l’acquisto di ecomostri, leggi case abusive che deturpano la costa o la campagna, per poi abbatterli. Non è stato proprio un successo, anche perché è obiettivamente difficile trovare qualcuno pronto a sganciare soldi per una simile causa in una terra dove l’abusivismo edilizio è sempre diffuso e dove la campagna viene spesso scambiata per una discarica di rifiuti di ogni genere.
Anche Ferzan Ozpetek s’è lasciato coinvolgere in un progetto che a modo suo intende recuperare e valorizzare il territorio. A Lecce, proprio all’ombra dell’obelisco, negli anni Cinquanta l’Eni di Enrico Mattei fece costruire la stazione di servizio Agip che è un piccolo gioiello di architettura. A Milano, tanto per chiarire di cosa si tratta, ne nacque una disegnata dalla stessa mano ma ovviamente più grande, in piazzale Occorsio. Ora è la sede di Garage Italia Customs, l’officina voluta da Lapo Elkman in cui alle auto viene dato un look personalizzato e di lusso.
Tre anni fa la stazione Agip di Lecce venne trasformata in un bar, “Il Benzinaio”, attorno al quale si snoda la trama di “Allacciate le cinture”. Un successo straordinario: ci sono ancora turisti che, scesi dal pullman a Porta Napoli, chiedono di visitare il locale che hanno visto nel film. Ma il luogo è tornato ad essere una stazione di servizio dismessa, circondata da auto in sosta e rifiuti. Ora Ozpetek, insieme con alcuni amici-soci leccesi, si appresta a riaprire “Il benzinaio”, strappandolo al degrado.
Ferzan e Edoardo non sempre raccontano lo stesso Salento. In “Mine vaganti” e “Allacciate le cinture” c’è soprattutto Lecce con il suo centro storico, il barocco e le strade lastricate. La Lecce della borghesia che abita i palazzi ristrutturati, che una volta l’anno apre i portoni per mostrare con orgoglio androni e giardini e che per il resto dei 365 giorni pranza, cena, discute e gioca a burraco nel chiuso dei salotti. Un po’ bacchettona, soprattutto quando deve misurasi con temi come l’omosessualità, chiacchierona e a volte pettegola. «Ma tuo figlio si sposa con Caterina “spiaggia libera”? Sai perché la chiamavano spiaggia libera? Perché dicevano che tutti passavano e ci ficcavano l’ombrellone...», dice mamma Stefania (Lunetta Savino) all’amica che sa essere linguacciuta. La scena, In "Mine vaganti", è quella girata nello storico negozio di pelletteria Abruzzese, sul corso. Antonio, il proprietario, ha chiuso anni fa ed ora è uno degli amici salentini che Ferzan non manca di frequentare ogni volta che torna a Lecce. E se è in città ve ne accorgete passando da Povero, in piazza Castromediano. È lì che spesso si ferma a mangiare e a fare quattro chiacchiere.
Quello di Winspeare è invece un Salento agricolo, molto più ruspante ma non per questo meno aderente alla realtà. Anzi. “In grazia di Dio”, uscito nel 2014, di realtà ne mostra tanta. Si parte dalla crisi del Tessile, che nel Capo di Leuca ha seminato disoccupazione e povertà, e si finisce col ritorno alla campagna. Senza lavoro e senza prospettive, le due protagoniste tornano a coltivare la terra dei genitori. Una sorta di decrescita felice, l’unica - sembra - possibile risposta a una crisi che, a parte qualche rara e felice eccezione, in questa terra non è riuscita a trovare la via della ripresa.
Anche a Depressa, come a Tricase, a Casarano e nel resto del Salento, negli anni Cinquanta e Sessanta la Belvedere del padrone passava per consegnare le tomaie da lavorare in casa. Quattro soldi a pezzo e salute a rischio per le donne che maneggiavano cuoio e collanti, ricchezza per la fabbrica che ovviamente non pagava contributi, non firmava contratti di lavoro e non innovava. La crisi è anche figlia di questo.
Lo stesso Salento, con storie diverse, è quello di Disperata, il paese nel quale si sviluppa la trama dell’ultimo film di Edoardo, “La vita in comune”. Disperata è come Depressa e Depressa in fondo è come Ferner. “Luoghi nei luoghi”, periferia nella periferia, Sud del Sud. Ma anche porti sicuri dove rifugiarsi quando tutto attorno diventa difficile. Come accade ad Elena e Antonio nel finale di “Allacciate le cinture”, quando in moto raggiungono la spiaggia dove si sono amati per la prima volta. Come accade alle donne di “In grazia di Dio”, quando la fabbrica chiude e la povertà incombe.
Come accadde, ma questa è realtà, a Girolamo Comi quando tornò nella sua Lucugnano, a uno sputo da Depressa, stanco e in crisi per via dei tanti progetti naufragati. Oh Spirito! dall’ombra delle belle/ carni che qui respirano, tu emergi/ puro e sottile e tutto cieli vergini/ e da ogni corpo emergono le fiabe/ melodiose, calde e immemorabili/ del tuo stelo ch’è fatto d’aliti di albe…”. Ci vorrebbe Coppula Tisa, ora, per ridare vita alla casa e ai libri del poeta rimasti intrappolati nelle evanescenze della politica.
Bello il Salento raccontato da Ozpetek e Winspeare, ma a volte vien da pensare che avesse ragione Vittorio Bodini:Qui non vorrei vivere dove vivere/mi tocca, mio paese,/così sgradito da doverti amare...”.
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