Addio ad Alessandro Leogrande: l’amore per l’umanità nelle sue storie di vita

Addio ad Alessandro Leogrande: l’amore per l’umanità nelle sue storie di vita
di Anita PRETI
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Lunedì 27 Novembre 2017, 11:54 - Ultimo aggiornamento: 28 Novembre, 20:39

Non si può morire così. Non c’è consolazione (l’infinito, il domani, il Paradiso) dinanzi a questa morte. Non ci sono parole che bastino per colmare il dolore della sua famiglia, per acquietare lo sgomento degli amici.
Se ne è andato il migliore. Non è una frase fatta. Alessandro Leogrande, tarantino, classe 1977, era il migliore nella nuova generazione di scrittori, nel vivaio pugliese che aveva preso vigore dopo l’exploit di Raffaele Nigro negli anni Ottanta, dopo l’affacciarsi, qualche tempo prima di Tommaso Di Ciaula. Adesso c’era, c’è in giro una nidiata di “solipsistici” da aggiungersi ai giallisti dell’ultima ora. No, Alessandro, non parlava di sé, al limite della sua città. Alessandro si sporcava le mani prima di impugnare la penna, di mettere nero su bianco, di pigiare sui tasti del computer.
Ultimi, penultimi, terzultimi erano i protagonisti delle sue pagine e li scovava non nella fantasia ma guardandoli lavorare nei campi, uscire intossicati da una fabbrica, emergere dal nero di un mare di sera. Riposa in pace, si dice. E sia davvero così, questa volta come è accaduto certamente per altri; sia così perché lo merita Alessandro, perché ha molto faticato in pensieri ed opere. Aveva solo quattro volte dieci anni e aveva vissuto cento, mille vite, la sua e quella dei protagonisti dei suoi libri: “Un mare nascosto”, il primo; “Le male vite. Storie di contrabbando e di multinazionali”, “Nel paese dei viceré. L’Italia tra pace e guerra”, “Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud”, “Il naufragio. Morte nel Mediterraneo”; ed infine “La frontiera”, l’ultimo, due anni fa, edito come il precedente da Feltrinelli. Per la sua Taranto ha tenuto in serbo, dopo “Un mare nascosto”, “Fumo sulla città”.
Non sono storie d’amore, se non d’amore per l’umanità. Sono libri che raccontano la realtà e quindi storie di vita. Anche quella che certa gente non vuole vedere, di cui non vuole ascoltare, della quale non vuole parlare. I cosiddetti invisibili invece erano molto cari a Leogrande. L’altro, lo straniero, è stato per lui prima di tutto un fratello. Yvan Segnet, il ragazzo dalla pelle nera perché è nato nel Camerun, il ragazzo che sognava di diventare un calciatore più bravo di quanto non lo fosse e di fare l’ingegnere una volta arrivato in Italia ed era finito invece a raccogliere pomodori nella piana neretina, nel Salento, simbolo per tutti, anche per il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dello sfruttamento dei migranti nel lavoro sui campi, ha dichiarato ieri mattina unendosi al cordoglio generale che Alessandro Leogrande “era una persona per bene, un grande uomo”. Ed ancora: “Un amico, fratello e confidente a cui devo molto. Con la sua morte l’Italia perde un intellettuale, una delle menti più fini che rimaneva ancora in questa Italia del buio”.
“Lo straniero” si chiama la rivista che Alessandro Leogrande, da vicedirettore, ha curato fino a quando gli è stato possibile. Immigrazione, globalizzazione, pace, educazione i temi predominanti sulle pagine. L’aveva fondata vent’anni fa Goffredo Fofi, mentore nel cammino letterario dell’aspirante scrittore. E Alessandro, al suo maestro, aveva dedicato la cura della mostra celebrativa “Resistere al tempo. Vent’anni de Lo Straniero” accolta dalla Biblioteca nazionale centrale di Roma nel marzo scorso.
Leogrande si era fatto romano da molto tempo, lì in fondo aveva studiato, laureandosi in filosofia. Estraneo alle smancerie intellettuali e mondane capitoline, aveva trovato una nicchia di valore ma anche una specie di pulpito laico su RadioTre. Opinionista richiestissimo si lasciava ascoltare piacevolmente.
Per esempio quando invitava a riflettere, prima ancora di agire. “Vedo intorno cupezza, più che rabbia”, diceva parlando della sua città e del ciclone abbattutosi sulla sua gente. “Non c’è stata all’Ilva una cultura del lavoro di fabbrica per intenderci del tipo “La chiave a stella” di Primo Levi. L’aristocrazia operaia, sì certo: ma quando, per vari motivi, questa tendenza si è interrotta, allora si è smesso di riflettere”.
Qualità del lavoro, autonomia: parole impronunciabili, si stenta a crederlo, ancora oggi e non “talvolta” ma “frequentemente”. Ma non sono loro da mettere al centro della questione operaia, proseguiva Leogrande, bensì l’uomo.
Poi ancora più duro, più temerario, come il classico cavaliere senza macchia e paura, Alessandro si lanciava: “La storia di Taranto, quello che è successo dentro e fuori la fabbrica, non è solo una complessa pagina di storia cittadina ma il crollo verticale del processo di sindacalizzazione almeno rispetto al passato, rispetto agli ultimi quindici anni”. Una strategia radicalmente cambiata, se non addirittura “scientemente seguita”. Una disfatta collettiva, a ben vedere.
Con altrettanta e magari non gradita chiarezza Leogrande si era poi pronunciato su certe descrizioni che avevano fatto i grandi inviati dei grandi giornali italiani nelle ore calde della vertenza Ilva e dei primi passi di quello che poi diventerà il processo “Ambiente svenduto”. Diceva lapidario, consegnando agli altri il compito di decifrare le sue tre parole: “Mi hanno innervosito”.
Alessandro Leogrande è stato quello che comunemente si dice “un gran signore”, ma questi signori d’altri tempi, categoria e qualità connesse che a volte sembrano in disuso, non si inibiscono la facoltà di parola soprattutto se hanno coscienza di essere dalla parte del giusto. E questo giusto, quasi sempre nel cominciare, è il rispetto degli altri.
Di quegli uomini stivati sulla Vlora che arrivarono a Bari dall’Albania nell’estate 1991, lui aveva solo quattordici anni, cosa poteva sapere un ragazzino se non quello che sentiva dire in casa nei discorsi degli adulti, quel che vedeva nelle immagini di un popolo formicolante trasmesse dalla televisione. Ne ha cercati altri di migranti, Alessandro, e li ha trovati: attraversano ogni giorno, ogni notte l’Adriatico, il Mediterraneo. Spesso non ce la fanno a compiere la traversata, anche per cause non dipendenti dalla qualità dello scafo come nel caso dell’albanese Katër i Radës, colata a picco nel Canale d’Otranto il 28 marzo 1997. Alessandro aveva vent’anni. Ha impiegato i restanti venti della sua preziosa vita a raccontare, nei suoi libri, nei suoi scritti, sulle colonne dei giornali, storie di naufraghi, di sfruttati nel Sud del mondo, di poveri, di oppressi. Quindi non è stata una vita inutile la sua.
Gli piaceva il calcio? Lo ha raccontato in un’altra maniera. Con Goffredo Fofi ha scritto “Ogni maledetta domenica”. Che strano titolo pensando a quel che è accaduto. Ma lui non avrebbe usato quell’aggettivo. Un giorno è come un altro, avrebbe detto con la sua gentilezza d’animo. Perché Alessandro, nella notte che intercorre fra domenica e ieri, è solo partito; nessuno a Taranto, e non solo qui, ha intenzione di separarsi da lui.

 

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