“Balena blu” e dintorni: i genitori vigilino contro il web cattivo

Davide Bennato
Davide Bennato
di Claudia PRESICCE
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Domenica 28 Maggio 2017, 20:11
«Il pericolo peggiore per gli adolescenti davanti al computer? Le famiglie assenti. Perché preoccuparci di accompagnarli a scuola o controllare gli incontri che fanno per la strada e poi invece abbandonarli nelle piazze virtuali, dove di fatto analogamente socializzano e creano rapporti?».
A spiegare le reali emergenze presenti oggi sul web è Davide Bennato, docente di Sociologia dei media digitali all’Università di Catania e teorizzatore da anni della necessità di una regolamentazione dei comportamenti rispetto alla tecnologia, la “tecnoetica”.

Professor Bennato, cominciamo dal fenomeno “Balena blu”? Ci può spiegare che cos’è esattamente e come funziona?
«C’è molta confusione sull’argomento. Il “Blue Whale” sarebbe una sorta di gioco, tra virgolette, che richiede diverse attività da svolgere progressivamente nel tempo, per arrivare ad uno scopo finale che sarebbe il suicidio. Nonostante i tanti articoli in circolazione però, poco ancora di concreto conosciamo su questa storia. Vero è che in Russia dove si è manifestato sul loro social, equivalente al nostro Facebook, c’è un’altissima incidenza di suicidi tra gli adolescenti, circa 1500 all’anno, ma non abbiamo ancora prove che siano in relazione tutte a questo “gioco”. L’inchiesta è uscita lo scorso anno su un quotidiano russo ed è stata rilanciata da noi solo da qualche settimana, mentre i siti americani che si occupano di analizzare notizie in rete non hanno ancora trovato conferme, prove certe sulla concretezza stessa di “Balena Blu”. Da noi in Italia purtroppo stanno ribattendo notizie di molti siti che ne parlano e che non sono vere testate giornalistiche attendibili (comprese le Iene), o non hanno fonti accreditate. Nonostante le tante segnalazioni ricevute dalla polizia postale, che cerca di verificarle, non ci sono ancora fonti certe che colleghino i suicidi degli adolescenti - che purtroppo ci sono - al fenomeno “Blue Whale”. Resta il vero problema, reale, che se vengono amplificate dalla stampa cose non provate trovate in rete, si possa verificare un pericoloso “effetto Werther”…».

Un nome che non evoca niente di buono: che cos’è?
“È un effetto studiato in psicologia sociale e in sociologia che spiega che parlando con troppa enfasi sui giornali di suicidio crescono i casi di emulazione. Si potrebbe creare quindi il paradosso di provocarne davvero a catena. Bisogna stare molto attenti, non si può scherzare su queste cose, così davvero si “gioca” a creare suicidi”.
Ma casi di gruppi in cui si cerca di manipolare gli adolescenti esistono?
«Ci sono certamente gruppi in cui adolescenti con analoghi profili psicologici teorizzano il proprio suicidio. Altri in cui interagiscono ragazzi con analoghi comportamenti di auto-supplizio per disagi psicologici, come anoressia e bulimia per esempio, e da sempre si confrontano in rete, e si condizionano. Ma il fatto che ci sia una regia centrale che con 50 regole spinga gli adolescenti al suicidio, al momento non è ancora verificabile con prove certe. Altro sono i gruppi segnalati dopo il servizio delle Iene che probabilmente sono nati di punto in bianco, proprio in relazione al servizio, per seminare panico. Più si sparla e più si creerà un fenomeno, anche laddove non ci fosse».

Parliamo allora dei veri pericoli per adolescenti suggestionabili in rete?
«L’unico vero pericolo è una famiglia assente, non è internet. La regola che funziona per tutti i luoghi sociali è avere un rapporto chiaro e aperto con i propri figli per intervenire nelle situazioni di pericolo, dal bullismo alla pedofilia, ecc. Non significa avere il terrore che stiano con il telefonino in mano o davanti al computer, ma spiegare loro di non accettare mai caramelle da uno sconosciuto, né fuori, né dentro la rete».

Come spiegare ai nativi digitali che il cellulare che considerano l’amico principale può nascondere nemici?
«Spiegando che un cellulare è come un’auto. Non è pericoloso in sé, ma lo diventa se non si rispettano certe regole. In macchina bisogna rispettare la segnaletica, i limiti di velocità, indossare le cinture; sul web bisogna capire “dove ci si trova”. I ragazzi devono capire che se mettono qualcosa in rete oggi, ci resterà per sempre, anche quando a loro non piacerà più».

Che cosa cambia con la nuova legge contro il cyberbullismo?
«Si comincia ad incrementare la responsabilità individuale rispetto ad atteggiamenti considerati violenti nei confronti di altre persone. E soprattutto viene incontro alle paure degli educatori. Va infatti compreso che il cyberbullismo è bullismo manifestato in internet, cioè non è mai indipendente da atteggiamenti violenti che nascono nella vita quotidiana, fuori dal web. Si costruisce nella vita di tutti i giorni e si radicalizza con i mezzi di comunicazione digitali. Nessun “buono” dopo che accende il computer diventa aggressivo con il più debole, semmai enfatizza sui social atteggiamenti aggressivi imparati a scuola, in famiglia e con amici. La causa quindi non è “in” internet. Anzi, in rete il legislatore può risalire alla fonte della violenza, perché lì tutto lascia sempre una traccia, e questa legge agevola anche questo percorso».

E poi chiede collaborazione agli stessi ragazzini che possono segnalare o bloccare siti molesti, e dà loro maggiore potere.
«Sì, chi subisce violenza digitale, può far rispettare i propri diritti. Un atto di cyberbullismo ora ricade anche sul sito in cui si verifica. I gestori dei siti non possono far finta di nulla. Ora la prossima frontiera sarà cogliere il sottile confine tra esercizi di violenza e scherzi di cattivo gusto. Serve un dibattito importante per continuare su questo percorso».

Chi è bullo a scuola, lo sarà anche in rete, o no? Chi non ha comportamenti corretti nella vita, non li avrà sui social…
«Certo, se uno è odiatore di professione lo manifesterà anche su internet. La differenza sarà il fatto che della sua aggressività resta traccia, il turpiloquio non rimane nel bar del paese: se si mette nero su bianco sui social si conserva. E spesso proprio gli odiatori professionisti imparano, rileggendosi e con il confronto scritto con l’offeso, che hanno esagerato: così molte volte, in un secondo momento pentiti, cancellano i post eccessivi».

Alla fine c’è pure il risvolto educativo, di crescita della consapevolezza...
«In un certo senso sì, anche perché a mio avviso molti di questi atteggiamenti violenti nascono dalla mancata percezione dell’altro. Infatti, tranne alcuni casi estremi, se uno ha veramente idea del male che sta facendo all’altro è difficile che prosegua in quella direzione. Le parole, come dice il poeta, sono pietre, ma non tutti lo sanno».
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