di Paolo Graldi
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Venerdì 26 Ottobre 2018, 01:21 - Ultimo aggiornamento: 14:20
In questi casi si dice sempre: “Che almeno la orribile fine di questa ragazza serva a qualcosa…”. E si discute come in un brusco risveglio, di realtà ignote e ignorate e non invece di fatti arcinoti, denunciati, di dossier svaporati, di denunce lasciate cadere, di ignavia diffusa. A tutti i livelli. A Roma per accendere una lampadina e rischiarare l’evidenza del marcio ci vuole un morto. 
Che vergogna. Che tristezza. 

E si apre l’ambizioso capitolo delle promesse, dei basta così, dei mai più. Deja vu. L’uccisione barbara di Desirée, accesa con successo la caccia e la cattura dei responsabili, rivela a tutti il contesto del delitto. 

Si svela quasi con irridente paradosso la realtà del quartiere di San Lorenzo, come se non fosse conosciuta. Dai tanti reportage si conferma il fatto che quel degrado dilagante, l’abbandono totale di ogni forma di sicurezza agita e percepita al confine del centro storico, è fatto antico, radicato, in progressivo peggioramento. E dire che qui non siamo all’estrema periferia, qui siamo a un tiro di schioppo da Termini, accanto al Policlinico Umberto I, confinante con la Città degli Studi, La Sapienza, con comandi militari e di polizia, alte istituzioni culturali. Un ghetto lasciato in pasto allo spaccio, ridotto a rifugio di senza tetto, senza dimora, senza identità. Fantasmi di ogni provenienza, fuggiaschi ma non cercati, con una immunità che deriva loro dal fatto che nessuno di loro si occupa, li controlla, li perquisisce. 

La sequenza del delitto ricostruita dalla “scientifica” e nutrita di testimonianza ci apre al sordido mondo della droga per campare e morire, dei pusher che sono anche violentatori, di gente che costruisce la propria esistenza tra i propri rifiuti e non vuole accettare che ci sia una speranza anche nella disperazione. E si ha l’impudenza di dividersi tra chi sta da una parte e chi dall’altra, chi invoca le ruspe e chi vorrebbe sotterrarle. E’ chiaro, perché la lezione dei fatti abbia un minimo di risposta, che la Capitale accanto alla sua presunta tranquillità narrata nelle statistiche, sconta vastissimi regni d’ombra, anzi di buio, zone franche, squarci di inferno urbano incandescenti col rischio dell’infezione sociale acuta. 

Il ministro dell’Interno Salvini, che della sicurezza ha fatto il suo vessillo più alto, promette a breve duecentocinquanta tra poliziotti e carabinieri in più ma forse dimentica che a qui, a Roma, si discute se le poche, rare Volanti hanno abbastanza benzina nelle loro Pantere, che la città di Roma è una metropoli di quasi quattro milioni di abitanti e che il turn over delle forze dell’ordine stenta a compiersi e le forze in campo hanno male alle ginocchia. 

La sicurezza è un prodotto come un altro, soltanto più delicato e complesso da maneggiare: ma ha un costo che bisogna decidersi a pagare, se è questo che occorre, per ottenerne di qualità adeguata alle esigenze. Che non sono poche. E qui le esigenze sono tante. Non serve ricorrere alla retorica dello sfascio, delle inadeguatezze della classe dirigente, del folklore capitolino e di quel “stiamo lavorando” che ha ormai esaurito ogni residua pazienza. 

La sequenza dei disastri del degrado è nota, si aggiorna soltanto l’elenco sanguinante delle vittime. Ma è chiaro che i territori “occupati” da chi si fa le leggi a proprio uso e consumo vanno liberati: piazza Vittorio, il Pigneto, i centri pseudo sociali a ridosso del cimitero sulla Tiburtina e le altre zone prosciugate della legalità sono aree infette, colpiscono interessi legali, comprimono i diritti dei cittadini perbene, impongono lo schema del ghetto impenetrabile e impermeabile. A Ostia dopo un lungo e quasi complice silenzio, il colpo di testa di un capo clan su un cronista, visto in tv, ha riacceso la determinazione alla legalità e in pochi mesi quattro clan dominanti l’intero litorale sono stati sgominati. Dunque: si può.

Un piano d’urto non è mai stato fatto ma soltanto vagheggiato, poi è annegato senza gloria nello scontro delle convenienze politiche anche intestine ai partiti che, parteggiando, sbilanciano e deprimono ogni effetto incisivo. 
Va bene, commuove, un fiore lasciato su una bara bianca come segno di dolore ma anche di fermo impegno. 
Purché non appassisca dopo il funerale. Non il fiore, l’impegno.


 
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