di Oscar Giannno
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Mercoledì 5 Dicembre 2018, 01:04
Gli oltre trentamila cittadini scesi in piazza a Torino per dire sì alla Tav senza vessilli né simboli di partito, le 12 associazioni d’impresa che l’altro ieri ancora a Torino hanno dato vita a un incontro senza precedenti per dire no alla decrescita: senza volersi avventurare in previsioni azzardate, quali sono in ogni caso le macroevidenze che mostrano agli occhi di tutti? 

Di sicuro indicano una realtà diversa da quella invalsa nell’interpretare ciò che è avvenuto alle ultime elezioni politiche, e via via nei sondaggi successivi a giugno, con la somma di Lega e Cinque Stelle tra il 55% e il 60% delle preferenze espresse. In media il 35% degli interpellati in quelle indagini demoscopiche non esprimeva consensi. Ora gli eventi torinesi mostrano che in quell’atteggiamento di muta sospensione del giudizio iniziano a manifestarsi segni espliciti di una delusione che ha preso corpo e spessore, sino a diventare una convinzione espressa al di fuori dell’offerta politica del 4 marzo. Tanto al di fuori che non è possibile in alcun modo ricondurla alle opposizioni dell’attuale maggioranza di governo.

Le 12 associazioni d’impresa strette insieme alle Officine Grandi Riparazioni torinesi rappresentano insieme pressoché per intero il mix dell’economia italiana: la manifattura e l’industria, il commercio con la distribuzione grande e piccola, l’artigianato che da anni non è più il piccolo modo antico della manualità professionale ma è inserito nelle catene del valore industriale, l’agricoltura e le maggiori centrali cooperative. Oltre l’80% dell’export e del 65% del valore aggiunto nazionali, più di 13 milioni di occupati rispetto ai 23 milioni del nostro Paese. 
In una storia pluridecennale ormai alle spalle da tempo, la cosiddetta “concertazione”, i governi incontravano le decine di sigle datoriali e sindacali nella Sala Verde di palazzo Chigi. E la politica consisteva nella preferenza accordata a questa o quella delle istanze da loro rappresentate, non solo distinte ma quasi sempre contrapposte ed elidenti. La novità assoluta è la loro convergenza, ed è in questa scelta maturata senza alcuna forzatura il vero e più forte elemento di novità. 

Qualcuno ha parlato di delega ritirata alla Lega e ai Cinque Stelle. Ma se si trattasse di questo saremmo in presenza di toni e proposte che preludono a un’offerta politica nuova. Non è così, invece. Ed è forse per questo che Lega e Cinque Stelle rischiano di non comprendere la portata del fenomeno nuovo, liquidandolo con qualche battuta sferzante. 

Ciò che ha indotto le 12 associazioni a parlare insieme la stessa lingua è una crescente preoccupazione divenuto esplicito allarme. Da giugno i segnali economici di energica frenata si sono estesi e sommati. Non pesa solo la frenata dell’export, dovuto alla guerra commerciale internazionale tra USA e Cina. Il contributo delle esportazioni al PIL del terzo trimestre si è attenuato fortemente rispetto al passato, dall’aumento tendenziale che nei quattro trimestri 2017 oscillava tra il +5 e il +6,4% si è scesi verso il +1%. Ma resta un apporto positivo, per quanto modesto. Ad averci risospinto in terreno negativo è il segno meno sulla domanda interna e sugli investimenti. E gli indicatori che anticipano il quarto trimestre segnano ulteriori peggioramenti: acquisti e ordinativi delle imprese, fiducia di aziende e famiglie, tutti in discesa. 

Tradizionalmente, se ci fermiamo alla mera materia fiscale le imprese manifatturiere chiedevano meno cuneo fiscale e meno IRAP, mentre quelle del commercio e artigiane meno IRPEF, per sostenere la domanda interna di consumi e il potere d’acquisto. Ora è la somma globale delle delusioni su ciascuno di questi terreni e al contempo su tutti insieme, rispetto alla legge di bilancio di Lega e Cinque Stelle, a disegnare agli occhi di tutti il rischio di una recessione in cui sembra ci si voglia infilare ignorando l’evidenza dei dati. E la grande novità è che a questo rischio un’alleanza tanto vasta di forze dell’economia reale decida di opporre un serio e motivato no, senza restare nel silenzio che vide sorprese e sgomente le imprese italiane nell’estate 2011, quando si scatenò l’uragano che chi ha regalato la peggior perdita di prodotto e di reddito del Novecento. 

Uscire dallo stallo delle grandi e piccole opere infrastrutturali bloccate da vent’anni è solo il compendio simbolico di questo no generale alla decrescita. Più investimenti e più innovazione e produttività, meno fisco su lavoro e impresa disegnano una ricetta molto diversa da quella della legge di bilancio. Senza più concessioni a divisioni e contrapposizioni, perché con lo spread e il maggior costo del credito e del debito siamo tutti sulla stessa barca. Non è la grande industria, non è l’alta borghesia finanziarizzata, non è l’élite globalista a parlare per la prima volta insieme questo linguaggio di consapevolezza. E’ una vastissima porzione d’Italia che muove l’economia nazionale, del Nord e del Sud, interclassista e radicata in pressoché tutti gli scaglioni di reddito. Politica e governo farebbero bene a prenderla sul serio. Trimestri successivi di nuova recessione autoinflitta, credendo lucrino un trionfo elettorale, potrebbero tradursi invece in un esito molto diverso da quello sin qui promesso dai sondaggi. Oltre che economicamente molto doloroso per tutti gli italiani. Un’Italia che si esprime con la serietà e la dignità che mancano totalmente ai gilé gialli che devastano Parigi e bloccano la Francia lasciano probabilmente stupefatte le forze populiste. Ma rappresentano un patrimonio civile di operosità e coesione sociale contro il quale voler governare l’Italia è un azzardo totale.
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