Augusto Melica, il medico buono
e le trame dei poteri Dc

Augusto Melica, il medico buono e le trame dei poteri Dc
di Angela NATALE
6 Minuti di Lettura
Sabato 27 Maggio 2017, 06:10 - Ultimo aggiornamento: 14:16

“Un sindaco eletto dal popolo sovrano ha ben altra forza e autorità di uno votato a maggioranza dal Consiglio comunale”. Ne sapeva qualcosa il pneumologo Augusto Melica. Fosse oggi, con l’elezione diretta, nessuno lo avrebbe schiodato dalla poltrona di primo cittadino a Palazzo Carafa: Poltrona? Sedia traballante. Che, fin quando ha potuto, il medico primario nell’ospedale di San Cesario, ha difeso a spada tratta. Non perché gli piacesse stare comodamente seduto, anzi. Ma perché all’epoca – tra il 1986 e il 1988 – gli scranni del municipio erano diventati particolarmente scivolosi, usurati, pericolanti.
Una semplice rinfrescata non sarebbe stata sufficiente a tenere sulla retta via chi li occupava - il già collaudato pentapartito Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli - figurarsi chi li controllava a vista. Spirava una brutta aria nella maggioranza.
 Rimasto impigliato nelle trame di potere del suo partito (la potente Democrazia cristiana) è caduto presto il sindaco Melica. A mettergli i bastoni tra le ruote fu proprio l’uomo che lo volle primo in lista alle elezioni seguite alle dimissioni di Ettore Giardiniero e, poi, sindaco sindaco dopo quelle presentate da Salvatore Meleleo, eletto parlamentare. Chi era? Pino Leccisi. Un nome, una garanzia. Di potere. Che andava continuamente verificato, aggiornato, rimescolato.
Si conoscevano da anni, i due: medico uno, sindacalista l’altro, da adolescenti avevano entrambi studiato nel rigidissimo collegio Calasanzio di Campi Salentina prima che, poco più che adolescenti, le loro strade si dividessero. Con il giovane Augusto in partenza per Bologna dove studierà medicina, si specializzerà in Pneumologia e chirurgia e lì si fermerà per anni, all’ospedale Sant’Orsola. O, forse, no. Forse non si conoscevano così bene come si raccontava vista la brutta piega che di lì a poco prenderà il loro rapporto di amicizia. Tirava una brutta aria. Spifferi e correnti, era guerra continua. Con Leccisi, sottosegretario di Stato, fedele prima al credo Forze nuove di Donat Cattin e poi vicino al doroteo Gava, e con Nicola Quarta, altro plenipotenziario, vicino ad Andreotti. Nel mezzo i dorotei di Fitto (padre): tutti alle prese con i costi della politica e con il far quadrare i conti legati alla moltiplicazione delle sezioni, al mantenimento delle segreterie politiche, al reclutamento di nuovi tesserati, all’aggiornamento della lista dei privati benefattori, soprattutto imprenditori, costruttori, amici degli amici che prima o poi avrebbero battuto cassa. E qualcuno, prassi ordinaria, in Comune – dove indirizzo politico e gestione amministrativa allora era tutt’uno - bussò una, due, tre volte. Porte sbarrate, sempre. Il sindaco – raccontano i bene informati e le cronache del tempo – non aprì mai a nessuno. Né a chi chiedeva un cambio di destinazione d’uso dei propri terreni; né a chi, grazie al vecchissimo Piano regolatore (il nuovo, ancora in vigore, verrà solo qualche dopo col sindaco Francesco Corvaglia) aveva poco illuminati piani di espansione e di lottizzazione. I progetti su mercato coperto e tangenziale, che pure rientravano tra le priorità d’intervento, erano bloccati anch’essi da veti e contro veti. Ma il vero pomo della discordia che vide impegnati i cospiratori nell’azione di delegittimazione del sindaco, fino a costringerlo alle dimissioni, era la gestione urbanistica della città. Come lui, Melica, la pensava l’assessore all’urbanistica Floriano Negro, tanto che anch’egli fu costretto a lasciare quando la maggioranza trovò la quadra per resistere e stare in sella al governo grazie all’appoggio di due consiglieri del Movimento sociale italiano, Belfiore e De Cristofaro. A Palazzo c’erano uomini forti, politici capaci, tanto a destra quanto al centro e a sinistra. Come Fabio Valenti (Psi, vice sindaco), Meleleo, Ottorino Fiore, Francesco Corvaglia, Antonio Torricelli, Paolo Pellegrino, Pino Marasco, Antonio Tamborrino, Tommaso Borgia, Vincenzo Caggia, Raffaele Pozzi, Antonio Carpentieri, Ettore Bambi, Antonio Capone, Giacinto Leone. E poi Mario de Cristofaro, Carlo Belfiore, Adriana Poli Bortone, tutti Msi.
I manovratori esterni avevano avuto la meglio su Melica, una volta capito che non sarebbero riusciti fargli cambiare linea, condotta, principi. Difficile raggirare uno che non aveva esitato, insieme con Fabio Valenti e Giacinto Urso a farsi promotore del referendum contro Cerano o a chiudere, sfidando le ire dei commercianti, il centro storico da via Vittorio Emanuele a piazza Sant’Oronzo. Anche da primario, si leggeva tutte le carte e metteva in guardia i suoi assistenti convinto com’era che, per non correre rischi di natura giudiziaria, i medici dovessero essere anche manager, quanto meno di se stessi. E poi c’era il fatto la politica la masticava, e bene: essendo stato consigliere comunale a Casalecchio, comune di 30mila abitanti alle porte di Bologna, sapeva leggere e interpretare alla perfezione tutti gli atti, bilancio compreso. Ci volle poco per scoprire che avevano “sbagliato” nel fargli guidare la macchina di un’amministrazione pubblica in cui vigeva un sistema di potere consolidato e in espansione. Proprio come la città. Che in breve avrebbe raggiunto i 100mila abitanti e che nel ’91 presenta un quadro socio-economico privo di un robusto ceto imprenditoriale.
Non accettava condizionamenti il sindaco Melica. E fu il suo stesso partito a sfiduciarlo, a chiederne le dimissioni, a farlo cadere. Un casus belli che rimbalzò nelle alte sfere romane quando il movimento giovanile dei democratici cristiani, seguaci della linea di rinnovamento morale portata avanti da De Mita e Martinazzoli, usci allo scoperto gridando allo scandalo. Un manifesto dal titolo “La città deve sapere”, contro la Dc e a sostegno del sindaco, venne affisso in tutta la città e, fatto sintomatico, fu firmato anche dai giovani leccisiani. Non bastò a fermare la rivolta delle idee guidata dal giovane Cesare Vernaleone. Il partito prima di tutto. In Consiglio non si alzava la mano se i provvedimenti non avevano il lasciapassare dalle direzioni dei partiti, il via libera delle segreterie.
Sì, non la prese bene Melica. Però fu profetico nel togliersi più di un sassolino dalle scarpe. Quando cadde, disse a Leccisi: “Ricordati, io vado a casa ma la tua corrente non avrà mai il sindaco”. E così fu. Il suo uomo, Pino Marasco, era già pronto a passare di grado ma tutti i consiglieri di maggioranza a quel punto si misero d’accordo e votarono per Corvaglia.
E dopo? Dopo la vita di sempre, di prima. «In quei giorni era felice perché – ricorda il figlio Luigi, docente universitario, in politica con l’Udc, recuperava il suo tempo e i suoi hobby, il mare, la pesca.

Certo, è rimasto il rammarico per non aver capito prima che era finito dentro a degli ingranaggi che lo avrebbero schiacciato e, soprattutto, per non aver potuto portare a compimento i programmi che aveva in animo di attuare per la città. Sono fiero degli insegnamenti che mi ha dato: la politica deve essere solo un hobby. I politici galantuomini». Come era suo padre.

© RIPRODUZIONE RISERVATA