Treni lumaca e voli tagliati, emergenza per la Puglia e il Salento

Treni lumaca e voli tagliati, emergenza per la Puglia e il Salento
di Nicola QUARANTA
5 Minuti di Lettura
Domenica 7 Maggio 2017, 05:45 - Ultimo aggiornamento: 17:16
A passo d’uomo sul ferro, a “bassa quota” nei cieli. La Puglia che rischia l’isolamento al primo guasto sulle rotaie e che decolla dagli scali di Brindisi e Bari tra non poche difficoltà per le incognite legate tanto alla crisi di Alitalia quanto alle incertezze sul futuro assetto societario di Aeroporti di Puglia, continua a pagare a caro prezzo i limiti di una rete infrastrutturale inadeguata rispetto alle potenzialità economiche e turistiche della regione. Ma anche e sopratutto, insieme al resto del Mezzogiorno, rispetto alla crescita che ha accompagnato di converso il centro e il Nord del Paese. Toccare con mano l’Italia a due velocità significa misurarsi con le difficoltà quotidiane dei pendolari, con la carenza di collegamenti a supporto di un movimento turistico in continua crescita, con la cronica assenza di servizi e infrastrutture, a impedire la crescita del traffico mercantile, in danno delle grandi, medie e piccole imprese pugliesi che nonostante tutto operano con tenacia sul territorio, piuttosto che delocalizzare le loro attività. Magari aspettando, con fiducia, i buoni risultati, ad oggi poco visibili, della “cura del ferro” annunciata l’inverno scorso dal ministro dei Trasporti Graziano Delrio. In tutto 17 miliardi di euro, risorse spalmate anche al Sud e anche in Puglia, ed il capitolo del trasporto pubblico regionale, con 4,5 miliardi e 450 treni nuovi. In prospettiva ci sono il risanamento e il rilancio di Ferrovie Sud Est (assorbite dal gruppo Fs italiane) e il contratto di servizio con la Regione per il trasporto pubblico locale, attualmente in regime di proroga-ponte al 31 dicembre 2017 e al centro di una trattativa che potrebbe sancire un patto almeno decennale: sul piatto c’è l’affidamento diretto fino al 2032. 
 
L’obiettivo è dar vita a un sistema integrato tra vettori, eliminando sovrapposizioni. Un modello di servizi tra Foggia e Lecce più flessibile, che si adatti non solo alle esigenze della mobilità pendolare, ma che intercetti veri e propri nodi di interscambio con altri vettori e con altre modalità di trasporto: a Foggia con Ferrovie del Gargano e gomma, a Barletta con Ferrotramviaria, a Bari con Ferrotramviaria, Ferrovie Appulo Lucane, Ferrovie Sud Est e Amtab, a Brindisi con Stp, a Lecce e Taranto con Ferrovie Sud Est. 
Nel frattempo, la Puglia viaggia a singhiozzo: dal “Frecciarossa” alle “corse” regionali strategiche per il movimento turistico del Salento, come ad esempio il “Lecce-Gallipoli”. Su entrambi i fronti, non v’è certezza sul ripristino “estivo” dei collegamenti. Mentre crescono disagi, disservizi e contrattempi. Come quello che in occasione del primo maggio ha mandato in tilt l’intera rete ferroviaria regionale, complice un banale guasto sulla rotaia nel tratto a binario unico tra Campomarino (Campobasso) e Chieuti (Foggia). Inevitabile il caos, con la sospensione per ore della circolazione ferroviaria lungo lungo la linea ferroviaria Termoli-Foggia. Inevitabile. A subire le conseguenze dell’interruzione del traffico sono state nove “Frecce” e tre “Intercity”, con ritardi accumulati fino a 250 minuti. La causa? Molto semplice: la presenza in quel tratto nevralgico di un solo binario. E così i nodi vengono al pettine. L’alta capacità Lecce-Bari-Napoli prevede il completamento dei lavori non prima del 2026. Mentre è ancora un “campo di battaglia” il “tavolo” istituzionale per raddoppiare proprio quei 30 chilometri di binario unico, tra Termoli e Lesina, nel cuore non di una tratta laterale ma della strategica dorsale adriatica. Ad avversare l’opera la comunità molisana, in rotta sul tema con il governo centrale e con la stessa Regione Puglia.
Questa strozzatura è la causa principale per cui la dorsale adriatica non può essere attrezzata per svolgere le funzioni di rete ferroviaria ad alta capacità e cioè con la possibilità di elevate frequenze dei convogli che la percorrono.
Dalle rotaie alle ali “semichiuse”. Nei giorni più lunghi di Alitalia, con l’ex compagnia di bandiera commissariata e in cerca di acquirenti per non fallire, con conseguenti riflessi negativi sui voli dagli scali di Brindisi e Bari, il governo regionale e Aeroporti di Puglia sono alla ricerca di un partner industriale che possa aiutare a crescere e sviluppare gli scali pugliesi, con il pacchetto di maggioranza di Adp destinato comunque a restare in mani della Regione. Adp ha in programma investimenti infrastrutturali fino al 2019 pari a 187 milioni con due hub (Bari e Brindisi) destinati al traffico civile, uno (Grottaglie) al traffico merci e uno scalo regionale (Foggia). Sei milioni e mezzo di euro, presi dal bilancio autonomo della Regione Puglia, verranno impiegati per potenziare l’offerta low cost e, nella peggiore delle ipotesi, andare a coprire il vuoto lasciato da Alitalia che oggi garantisce 25 voli su Bari e Brindisi verso Roma e Milano. 
In settimana, intanto, il via libera allo “shuttle” di collegamento tra l’aeroporto del Salento e la rete ferroviaria nazionale attraverso la stazioncina dell’ospedale Perrino, a Brindisi. Il Tar di Lecce si è infatti espresso in via definitiva sul ricorso presentato da una delle imprese partecipanti alla gara. A questo punto, dunque, pur in attesa di un probabile ricorso al Consiglio di Stato, disco verde alla progettazione ed esecuzione lavori - da oltre 20 milioni a quasi tre anni dal bando di gara del Comune.
Via mare, altri nodi. Lo sanno bene anche le aziende salentine, costrette a fare i conti con le carenze dei porti di Taranto e Brindisi (dove il vento nuovo, comunque, è il movimento crocieristico, spinto da Msc e Costa), privi di un’adeguata infrastrutturazione (scalo container, depositi, laboratori per le prime analisi) rispetto a quelli del Nord, ad esempio Trieste. Risultato: moltiplicazione di tempi e costi. 
Queste le facce del Mezzogiorno reale, che danno tangibile e urgente sostanza a due paletti su tutti per lo sviluppo: il “gap infrastrutturale” e il “peso della burocrazia”. 
© RIPRODUZIONE RISERVATA