Conte dopo Ancelotti, Mancini e Ranieri, italiano come loro ma diverso da tutti. Unico per molti versi, come indicano i tanti segnali luminosi sparsi lungo una carriera che lo ha portato in undici anni a diventare oggi forse il più grande al mondo. E senza perdere una virgola della sua salentinità, del suo radicamento, della sua cadenza inconfondibile, ancora oggi dalle parti di Stamford Bridge come prima in azzurro, alla Juve, al Siena, all’Atalanta, al Bari e all’Arezzo, nel viaggio a ritroso di un cammino non facile, non gratuito, ma al contrario quasi dovuto, inevitabile, meritato.
Caso forse irripetibile, Conte diventa ad ogni step più forte, più carico e, soprattutto, più entusiasta, motivato, quasi rabbioso nella sua determinazione. È uno a cui i successi scivolano addosso senza lasciare traccia, come i 40 grammi di bresaola imposti per pranzo a chi deve perdere peso. Ma la fame resta e lui quella fame ce l’ha ancora e sempre più lancinante, da un pasto all’altro, da un traguardo all’altro: è un bulimico della vittoria, del campo, del calcio.
Più di chiunque altro. Ce ne sono, di bravi, bravissimi, magari anche più di lui, per tecnica, stile, astuzia, appeal mediatico. Ancelotti e Guardiola sono straordinari, impeccabili. Ma quel fuoco dentro, che brucia oggi come alla sua prima panchina da professionista, non ce l’ha nessuno. Nemmeno Mourinho, al quale per molti aspetti è stato paragonato, per la personalità, la capacità di fare gruppo e dal quale nulla ha da imparare sul piano tattico. In realtà, il Mourinho di oggi è già più dimesso rispetto a quello del primo Chelsea e dell’Inter aurea. Eppure sono passati sette anni dal triplete nerazzurro, non un’eternità.
Ma Mourinho è uno da spot, così ammiccante, glamorous. Conte no, in una pubblicità non si può immaginare proprio, bocciato in partenza, con quell’accento, più forte dei corsi intensivi di inglese. Era e resta leccesissimo, legato indissolubilmente alla terra che lo ha lanciato e che non perde mai occasione per portarsi dietro, quasi fosse la coperta di Linus, il suo segno distintivo, nel modo di fare, di porsi, di lavorare. Ed è emblematico il suo modus operandi, lo sono le sue scelte, così tradizionali e tradizionaliste, come dimostra quello staff ad altissimo coefficiente di salentinità: lui, il fratello Gianluca, il preparatore Tiberio Ancora, collaboratori sparsi ma tutti con la stessa provenienza. Un marchio di fabbrica, quello del Lecce di Iurlano e Cataldo, perché tutto è partito da lì.
In fondo anche il suo attuale modello manageriale, rivoluzionario, addirittura anacronistico per quel livello di competitività. Ma evidentemente vincente, perché al di là dei curricula, dei nomi, della fama, si può costruire un’impresa vincente anche ragionando soprattutto con il cuore, con l’affidabilità, con quella insostituibile sintonia che si può stabilire solo con chi conosci veramente e da cui sei conosciuto altrettanto profondamente. È così che si crea un’atmosfera quasi magica, la qualità che contraddistingue tutte le sue avventure, tutte le sue squadre, oggi il Chelsea, appena ieri la Nazionale. Organici non da copertina ma sempre in grado di andare oltre i propri limiti grazie all’imprinting del tecnico, al “contismo”, alla capacità di trasmettere emozioni al gruppo, al pubblico, ai tifosi. L’Italia degli Europei era obiettivamente scarsa, eppure ha lasciato un fantastico ricordo di sé. E anche questo Chelsea non ha la potenza di fuoco di un ManU, dello stesso City, di un Arsenal: conquistare la Premier, onestamente, è stata un’impresa, come tante altre compiute da Conte in passato.
Quella che ancora, incredibilmente, gli sfugge è la riconquista della sua gente, dei suoi conterranei. E pazienza se a qualcuno darà fastidio sentire la questione riproposta. Però è francamente intollerabile che persistano nei suoi confronti astio, rancore, addirittura odio da parte di chi invece dovrebbe essergli riconoscente, anche solo di riflesso. Piaccia o no, Conte porta nel mondo il nome di Lecce, è il suo miglior ambasciatore possibile e non fa mai nulla per far passare sottotraccia il messaggio. D’altro canto gli basta aprire bocca e dire qualsiasi cosa,
Niente a che vedere, ovviamente, con il senso di appartenenza, concreto, proficuo e non contraccambiato, che Conte continua a sprigionare incantando il mondo con le sue capacità e la sua anima salentina. Un leccese vero, molto più dei tanti che ancora oggi lo offendono. Don’t worry, Antonio, be happy. Te lo meriti.