Il 25 aprile e l'intreccio tra libertà e lavoro

Il 25 aprile e l'intreccio tra libertà e lavoro
di Tomaso PATARNELLO
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Mercoledì 25 Aprile 2018, 18:55
“Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi. Questa frase - tristemente famosa - accoglieva i deportati all’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz. Il 25 Aprile si commemora la liberazione dal nazi-fascismo, quel nazi-fascismo che aveva concepito i campi di concentramento prima come campi di lavoro per la “riabilitazione” di tutte le categorie socialmente pericolose come ebrei, rom, omosessuali. Poi i campi di lavoro sono diventati campi di sterminio, come se il lavoro non fosse stato sufficiente a permettere la redenzione e la restituzione della libertà promessa all’ingresso.

Con non poca ironia, la storia ha riportato il lavoro al centro della nostra Repubblica - nata appunto dalla lotta partigiana ai nazi-fascisti - che all’Art. 1 recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Che il lavoro renda liberi è una verità che va oltre il marchio infame della storia e dei ricordi che questa frase evoca. Forse mai come oggi dalla fine della seconda guerra mondiale la mancanza di lavoro significa, per milioni di italiani, mancanza di libertà.

L’Italia è, tra i paese occidentali, quello che fa più fatica ad uscire dalla crisi. In parte per demeriti dell’attuale classe politica in parte a causa dell’enorme debito pubblico che è comunque il risultato dei demeriti dei politici del passato. Ma il demerito principale del nostro Paese è quello di non aver capito che siamo nel mezzo di una rivoluzione epocale che sta cambiando radicalmente la natura stessa del lavoro. Il sistema produttivo fatto di piccole o piccolissime imprese familiari basato su prodotti con poca o pochissima innovazione e su molta evasione fiscale non esiste più. Siamo nell’epoca dei robot, dell’intelligenza artificiale, del machine learning e dei big data. Tutto questo è realtà già oggi ed è con questa realtà che si deve confrontare il mondo del lavoro ma soprattutto il mondo della formazione secondaria e terziaria, Università in primis, cui è affidata la responsabilità di fornire gli strumenti per affrontare queste nuove sfide.

Ogni fase di grande cambiamento in cui la tecnologia forniva nuovi sistemi di automazione è stata accompagnata dalla preoccupazione per la possibile perdita di occupazione. E’ successo già a fine 1700, inizio 1800 con l’introduzione delle prime automazioni meccaniche che hanno prodotto forti proteste operaie nelle fabbriche inglesi. Si è ripetuto nel 1964 con un documento denominato The triple revolution inviato al presidente degli USA Lyndon Johnson da un nutrito gruppo di economisti e sociologi. Nel documento si esprimevano serie preoccupazione per l’impatto negativo che l’introduzione dei computer e il potenziamento dell’automazione avrebbe avuto sulle attività produttive. Il rischio paventato, ancora una volta, era quello della diminuzione dei posti di lavoro a fronte dell’aumento della capacità produttiva dovuta alle macchine. Già allora, nella previsione di uno scenario di disoccupazione diffusa, si prospettava la necessità dell’intervento dello stato con robusti investimenti pubblici e l’erogazione di un reddito garantito. Queste previsioni sono sempre state considerate eccessivamente allarmistiche e l’alternarsi di cicli economici di espansione e contrazione - con relativo aumento e diminuzione dell’occupazione – veniva visto dagli economisti come un fatto fisiologico.

Ci sono però due elementi di oggettiva preoccupazione. Il primo è legato alla relazione tra compenso (ai lavoratori) e produttività. Dalla fine della seconda guerra mondiale fino agli anni ’70, compenso e produttività sono cresciuti in modo lineare e parallelo. All’aumentare della produttività aumentava il compenso dei lavoratori. Dagli anni settanta ad oggi le due linee si sono divaricate ed i compensi, sostanzialmente, non sono più cresciuti mentre la produttività è più che raddoppiata. Martin Ford, imprenditore di successo della Silicon Valley, esperto di intelligenza artificiale e autore de “Il futuro senza lavoro” (edizioni: Il Saggiatore) sembra non avere dubbi: negli ultimi 40 anni le macchine e le automazioni hanno progressivamente sminuito il valore del lavoro e dei lavoratori i cui compensi non sono cresciuti pur di fronte ad un significativo aumento della produttività. In altre parole, se per un certo tempo la tecnologia “aiutava” gli operai ad aumentare la loro produttività da un certo momento in poi le macchine non hanno più avuto bisogno del controllo umano e, per la gran parte dei processi, sono state capaci di procedere in completa autonomia.

Il secondo elemento di preoccupazione è la rapidità di evoluzione dell’intelligenza artificiale. Se nel passato (recente) le automazioni attraverso sistemi computerizzati avevano comunque bisogno dell’uomo per essere programmate, oggi le macchine sono in grado di “imparare” da sole attraverso i processi di machine learning. Un processo cognitivo del tutto simile a quello umano che si fonda sull’ “esperienza”, cioè su un processo di tentativi ed errori da cui “apprendere” la soluzione corretta ad un problema. Con due differenze sostanziali rispetto alle nostra capacità cognitiva: una potenza di calcolo infinitamente maggiore e la possibilità di accedere ad una “memoria collettiva” virtualmente infinita da cui trarre tutti gli “insegnamenti” e le “esperienze” necessarie, la rete (o big data se vogliamo usare un termine oggi molto di moda).

Certo, ci vorrà sempre qualcuno che operi in questo nuovo mondo dominato dalle macchine e dalla rete, penso a ingegneri, informatici, programmatori, o anche a tutti gli aspetti legati alla proprietà intellettuale dell’enorme mole di informazioni accessibili in rete nonché agli aspetti della privacy che comporta il loro utilizzo (vedi Cambridge Analytica e Facebook). Ma sarà sempre una frazione molto piccola del mondo del lavoro come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi.

L’assetto della società dovrà confrontarsi con i nuovi equilibri che le innovazioni tecnologiche inevitabilmente comportano ma la velocità con cui queste innovazioni stanno prendendo il sopravvento potrebbero cambiare il paradigma su cui la nostra società si è sempre basata: la centralità del lavoro. Con buona pace dell’Art. 1 della nostra Costituzione.


 
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