Ora Trump si accorge che un Paese non si governa con post e spot

di Giuseppe BERTA
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Martedì 31 Gennaio 2017, 14:29
L’improvvisazione, specie per quanto concerne l’arte di governo presenta costi altissimi. Forse incomincia a rendersene conto anche Donald J. Trump, che sta scoprendo - a sue spese e a spese anche del mondo - che governare un paese (e che paese, se si tratta degli Stati Uniti!) non è come diramare brevi messaggi su Twitter. Il marasma e la protesta che sono susseguiti alla decisione di bloccare i permessi d’ingresso negli Usa dei cittadini con provenienza dalle nazioni considerate con sospetto dagli organi di sicurezza Usa non sono il frutto di campagne orchestrate dai nemici di Donald Trump, come ripetono i simpatizzanti della nuova presidenza anche in Italia.
Se stanno destando reazioni così forti non è perché gli anti-trumpiani di tutto il mondo sanno come dominare i mezzi di comunicazione di massa (un argomento difficilmente sostenibile dai seguaci di un uomo che si è dimostrato bravissimo, durante la campagna elettorale per la Casa Bianca, nella strategia di diffusione dei suoi slogan politici). Né vale l’altro argomento, secondo cui Trump non farebbe che andare avanti lungo la via delle limitazioni e del respingimento degli immigrati già avviata da Obama. Il problema vero è che i respingimenti hanno messo a nudo la grave imperizia amministrativa della nuova presidenza.
Come ha scritto il New York Times in un editoriale di domenica scorsa, Trump “dimostra di comprendere poco come’è organizzato e come funziona il governo federale, e il suo scheletrico staff sta ancora cercando di imparare”. Questo è il punto, oltre che la confusione di idee e la babele di linguaggi che peserà sulla capacità d’azione del nuovo governo. Le nomine al vertice delle varie agenzie federali vanno a rilento: ci sono 600 persone che hanno preso contatto soltanto la settimana scorsa con le strutture che dovranno guidare. Per giunta, si tratta in larga misura di personaggi digiuni di esperienza nel settore pubblico.
Ciò significa che Trump e i suoi ministri hanno un’elevata probabilità di compiere passi falsi nei famosi primi cento giorni di governo, proprio quelli durante cui un nuovo presidente vuole fornire agli elettori e alla pubblica opinione la prova della sua volontà di cambiamento.
L’imperizia, naturalmente, non è una giustificazione per le scelte che Trump ha annunciato. Ma la pretesa di rivoluzionare il mondo senza sapere bene poi con quali strumenti farlo aggrava gli effetti di un’azione politica ed economica che già non poggia su solidi fondamenti.
Si guardi per esempio all’economia, dove Trump ha promesso di compiere rapidamente una svolta incisiva. Si sono enfatizzate le vette dei corsi azionari raggiunte da Wall Street dopo l’arrivo del nuovo inquilino di Washington, ma sbaglia chi crede che riflettano lo stato di salute dell’economia reale. Gli indici di quest’ultima non sono affatto migliorati dopo il successo elettorale di Trump; anzi, si avvertono sintomi di rallentamento che sarebbe bene non sottovalutare.
Il mondo di Silicon Valley ha reagito assai criticamente ai provvedimenti antimmigrazione: Mark Zuckerberg (Facebook) e Tim Cook (Apple) sono stati tra i primi ad avanzare riserve e obiezioni. Alcuni diranno che Zuckerberg (il quarto uomo più ricco del mondo, a 33 anni non ancora compiuti) attacca Trump perché già immagina di essere il suo sfidante alle prossime elezioni. E Cook è stato rimproverato da Trump perché non produce negli Usa i suoi iPad e iPhone. La realtà è che colossi come Facebook e Google sono grandi multinazionali il cui nucleo costitutivo è fondato sull’“intangibile”, come scrive l’Economist nel suo ultimo numero. Erogano servizi e prodotti che si basano sul principio della proprietà intellettuale: qualcosa che sfugge totalmente agli schemi economici del passato in cui indugia Trump, con le sue promesse di rifare grande un’America che, ahimè, esiste ormai soltanto nella memoria collettiva.
Il capitalismo californiano protesta contro ogni blocco indiscriminato dell’immigrazione perché il suo capitale immateriale ha bisogno di essere rigenerato continuamente dall’immissione e dall’apporto di nuovi talenti. Quelli che escono dalle grandi università americane, dopo essere stati richiamati da ogni parte del mondo. E le grandi imprese che producono servizi basati sullo sviluppo della conoscenza hanno necessità di mantenere quell’aura di apertura sovranazionale che le ha sempre distinte.
Trump è stato abile nell’appellarsi a quelli che chiama i forgotten, i dimenticati dal processo di sviluppo degli ultimi vent’anni. Ma non ci vuol molto a pronosticare che il protezionismo sarà un’illusione che non riscatterà le vittime della globalizzazione: può far soltanto salire i prezzi dei prodotti, come successe nei primi anni Trenta. Un investimento di un miliardo di dollari in un moderno impianto industriale oggi può generare al massimo tremila posti di lavoro: nulla, se lo scopo è di rimpiazzare quelli persi e di sanare la piaga del declino del lavoro americano. D’altro lato, una prova di forza muscolare verso gli immigrati serve solo a rinviare problemi di tale portata, non a risolverli.
L’esito delle sue prime mosse di governo dovrebbe consigliare Trump di non precipitare le sue azioni. Alla presidenza non può ripetere il gioco che faceva con gli affari, quando apriva e chiudeva continuamente nuove società, confondendo così gli interlocutori. In politica, specie su scala internazionale, i bluff durano poco.
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