Il Sud tra crisi delle banche e ulteriore restrizione del credito

di Guglielmo FORGES DAVANZATI
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Giovedì 19 Gennaio 2017, 18:02
Negli ultimi mesi, i principali media italiani hanno dedicato ampio spazio al problema delle “sofferenze” del sistema bancario italiano (ovvero dei crediti deteriorati o non esigibili) e del Monte dei Paschi di Siena, in particolare. Si tratta evidentemente di un problema di massima rilevanza, che rischia però di oscurare un problema correlato, che attiene alla non risolta questione della restrizione del credito nel Sud.
Svimez certifica che l’economia del Mezzogiorno cresce sistematicamente meno di quella del Centro-Nord da quasi dieci anni, che le migrazioni, soprattutto giovanili e intellettuali, sono in continuo aumento, a fronte della crescente precarizzazione delle condizioni di lavoro per chi non può o non vuole emigrare. È tristemente emblematico, in tal senso, il dato recentemente diffuso dall’Inps sulla vertiginosa crescita dei buoni lavoro (voucher) venduti nel corso dell’ultimo anno: effetto probabilmente inatteso del Jobs Act, che, tuttavia, ne ha esteso la platea dei potenziali beneficiari. La spirale perversa nella quale il Mezzogiorno è precipitato parte dalla caduta della domanda interna, conseguente allo scoppio della prima crisi del 2007-2008 e accentuata dalle politiche di austerità. Le quali, sotto forma di compressione della spesa pubblica e di aumento della tassazione, sono state attuate in misura più intensa proprio nella macroregione italiana maggiormente colpita dalla crisi.
La caduta della domanda interna ha ridotto i mercati di sbocco per le imprese meridionali, che, nella gran parte dei casi, non sono orientate alle esportazioni e, dunque, vendono su mercati locali. Ne è derivata la compressione dei loro profitti - oltre a un’ondata quasi senza precedenti di fallimenti - e la crescente difficoltà di restituire i debiti contratti con il sistema bancario. Si consideri, a riguardo, che il credito bancario, nel Mezzogiorno, è la principale fonte di finanziamento degli investimenti: ben poche sono le imprese quotate in Borsa (che dunque possono finanziare la loro produzione attraverso la vendita di titoli sui mercati finanziari) e modeste sono le fonti di autofinanziamento, derivanti dai profitti realizzati. Non è sorprendente, in tale condizione, che le banche abbiano reagito o riducendo i prestiti o aumentando i tassi di interesse, al fine di compensare l’aumento del rischio di insolvenza dei debitori.
La dinamica che si è generata (e continua a generarsi) ha natura cumulativa: si riduce l’offerta di credito - e, per il peggioramento delle aspettative delle imprese, si riduce anche la domanda di credito - si riducono gli investimenti, l’occupazione, la domanda interna e i profitti, ponendo il sistema bancario nella condizione di aumentare ulteriormente i tassi di interesse (o ridurre ulteriormente l’erogazione di prestiti) per la riduzione della solvibilità delle imprese.
Le autorità europee e i governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni hanno ritenuto che si tratta di un problema di “<CF4001>liquidity risk”, ovvero di sottocapitalizzazione del sistema bancario e che, in quanto tale, vada risolto immettendo liquidità nei bilanci delle banche con maggiori sofferenze: ovvero quelle nei cui bilanci è maggiore l’incidenza di crediti inesigibili. Si tratta di una misura molto discutibile, che può generare effetti perversi e, a ben vedere, li sta già generando. Ciò soprattutto perché la ricapitalizzazione del sistema bancario implica un aumento della spesa pubblica, dal momento, che – come si è da ultimo registrato nel caso del Monte dei Paschi di Siena – le cosiddette soluzioni di “salvataggio di mercato” (ovvero il recupero di fondi da parte di operatori privati) sono di difficile praticabilità. E l’aumento della spesa pubblica può comportare un aumento del debito pubblico, senza alcun beneficio né diretto né indiretto né per i lavoratori né per le piccole imprese, e a maggior ragione né per i lavoratori meridionali né per le imprese meridionali. Anzi: l’aumento del debito pubblico – dati i vincoli posti alla sua espansione nei Trattati europei – è da finanziarsi attraverso l’aumento dell’imposizione fiscale, che, di norma, grava appunto su piccole imprese e lavoratori. In sostanza, il salvataggio pubblico di banche ha effetti redistributivi a vantaggio evidentemente delle banche e a danno evidentemente dei contribuenti. Si potrebbe aggiungere che si tratta di un provvedimento dai discutibili risvolti etici, dal momento che di fatto premia (o non sanziona) la cattiva gestione di Istituti di credito a danno di soggetti o gruppi sociali che di tale cattiva gestione sono semmai le vittime.
La questione andrebbe declinata in senso opposto: la sottocapitalizzazione del sistema bancario è il risultato del “solvency risk”, ovvero della crescita delle insolvenze delle imprese, a sua volta imputabile alla caduta della domanda e alla compressione dei margini di profitto. Bankitalia stima, a riguardo, che i c.d. non performing loans – ovvero i crediti inesigibili – sono pari a circa il 18% dei crediti complessivamente erogati. Si tratta, da questo punto di vista, semmai di salvare i clienti per salvare le banche.
Se la questione si pone in questi termini, è evidente che l’aumento della spesa pubblica non debba essere destinata alla ricapitalizzazione del sistema bancario ma a misure destinate ad ampliare il mercato interno, sotto forma, ad esempio, di aumento di salari e stipendi e maggiore regolamentazione del mercato del lavoro. E ciò andrebbe fatto soprattutto nel Mezzogiorno, giacché è in quest’area che il problema della restrizione del credito, e della conseguente recessione, è più intenso. Si potrebbe obiettare che, in assenza di un intervento pubblico di sostegno al sistema bancario, si metterebbe seriamente a rischio la sua tenuta, con presunti conseguenti fallimenti bancari che danneggerebbero risparmiatori e imprese più di quanto danno subiscano nelle condizioni date. Questa tesi si imbatte in una duplice critica. Innanzitutto, non tutte le banche italiane sono a rischio di fallimento e, anzi, per quanto risulta possibile accertare attraverso gli stress test del luglio scorso, il sistema bancario più fragile dell’Eurozona non è quello italiano. In secondo luogo, il salvataggio pubblico crea problemi di “azzardo morale”, ovvero incentiva eccessive assunzioni di rischio da parte dei singoli Istituti di credito, che, attendendosi interventi esterni in caso di aumento delle perdite, non avrebbero alcun interesse a una gestione efficiente. Ma, più in generale, va rimarcato il fatto che il problema origina, in ultima istanza, dal fatto che le banche, da ormai molti e troppi anni, hanno sostanzialmente smesso di fare ciò che ci si aspetta che facciano - erogare credito a imprese e famiglie - per scegliere la via più semplice della speculazione sotto l’ombrello protettivo dello Stato.
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