Il cinema e il sequestro di Aldo Moro

Il cinema e il sequestro di Aldo Moro
di Luca BANDIRALI
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Domenica 11 Marzo 2018, 20:17
Quarant’anni ci separano da un evento spartiacque nella storia della nostra repubblica: il 16 marzo 1978 cominciavano i cinquantacinque interminabili giorni del sequestro di Aldo Moro, all’epoca dei fatti presidente della Democrazia Cristiana.  L’immaginario collettivo di un’Italia molto divisa e lacerata da contrapposizioni ideologiche, generazionali, di classe, fu profondamente segnato da quello che Leonardo Sciascia ribattezzò “L’affaire Moro”. La macchina del tempo che ci consente di esplorare quel mese di marzo di quarant’anni fa è costituita in primo luogo dalle immagini di repertorio dei telegiornali Rai, oggi disseminate nel mosaico digitale di YouTube o reimpaginate nei documentari di Rai Storia. Ma che rapporto hanno avuto altre narrazioni di massa con questa vicenda? Com’è stato rappresentato Aldo Moro dal cinema, qual è stato il suo impatto simbolico su questi quattro decenni? Uno studio ormai classico per accedere al complesso sistema di rimandi tra la vicenda storica e la sua rappresentazione è “Tragedia all’italiana. Cinema e terrorismo tra Moro e memoria” di Alan O’Leary dell’Università di Leeds.

Sulla scorta di questo studio, facciamo alcune semplici constatazioni. In generale, la filmografia incentrata sulla stagione dei cosiddetti “anni di piombo” non è vastissima. Gli anni Settanta furono caratterizzati da film in qualche misura profetici, come “Kleinhoff Hotel” di Carlo Lizzani e “Ogro” di Gillo Pontecorvo. Il periodo di riflessione più intenso fu quello del riflusso, dell’uscita dalla stagione dei conflitti: “Colpire al cuore” di Gianni Amelio, “La caduta degli angeli ribelli” di Marco Tullio Giordana e “Segreti segreti” di Giuseppe Bertolucci segnarono in tal senso i primi anni Ottanta tentando di trovare un senso almeno narrativo alla disumana deriva della lotta politica trasformatasi in lotta armata. Nei tre decenni successivi il cinema italiano ha detto poco altro sull’argomento, coerentemente con una rimozione degli anni di piombo dalla memoria nazionale; un’eccezione fu un film sincero e sentito come “La seconda volta” di Mimmo Calopresti, ispirato alla storia dell’architetto Sergio Lenci.

In questo senso quasi stupisce che alla prigionia di Aldo Moro siano stati dedicati ben tre film; due incentrati su teorie del complotto, “Il caso Moro” di Giuseppe Ferrara (1986) e “Piazza delle Cinque Lune” di Renzo Martinelli (2003), e un terzo che rappresenta un capolavoro a sé stante, una riflessione filosofica apparentemente poco legata alla ricostruzione storiografica, “Buongiorno, notte” di Marco Bellocchio (2003). In termini mimetici, il Moro cinematografico più icastico è quello costruito da Gian Maria Volonté nel film di Ferrara; l’attore studiava l’uomo politico da anni, e in parte lo aveva già interpretato in “Todo modo” di Elio Petri (1976), adattamento dell’omonimo romanzo di Sciascia. Se Volonté ha incarnato Moro (che peraltro era un grande appassionato di cinema), Roberto Herlitzka per Bellocchio lo ha disincarnato, lo ha eternato e reso astratto come un’idea. La sequenza finale del film si è fissata nella memoria con una forza che ha origine dalla possibilità del cinema di trascendere il reale nel mentre lo rappresenta: come molti spettatori ricordano con commozione, il Moro di Bellocchio non muore, non se ne trova il corpo nella Renault 4 abbandonata in via Caetani, ma l’uomo lascia la prigionia e cammina libero in un’alba incerta. Non trattandosi, naturalmente, di un film accomodante o riconciliante, “Buongiorno, notte” offre allo spettatore anche la brutale e inemendabile documentalità, il repertorio dei telegiornali dell’epoca con i funerali dello statista.

Sulla centralità del caso Moro nell’opera del grande regista, ha scritto pochi anni fa un libro illuminante Anton Giulio Mancino; si intitola “La recita della Storia” e raccoglie con impressionante arguzia interpretativa i molteplici segni, disseminati nell’intera filmografia bellocchiana dal 1978 in poi, che rimandano a figure e situazioni dei 55 giorni. La suggestiva tesi di Mancino è ora validata da un nuovo progetto di Marco Bellocchio: una serie televisiva attualmente in lavorazione, “Esterno notte”, che racconta la storia del rapimento non più dall’interno della prigione ma al di fuori, nel brulicante e tragico teatro della realtà sociale, dove ogni genere di personaggio si prodiga per Aldo Moro, dice il regista, “per cercare di salvarlo, per far finta di salvarlo, boicottando apertamente o segretamente ogni trattativa per salvarlo”.


 
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