Sull'utero in affitto un “no” corale a difesa della donna

di Michele DI SCHIENA
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Lunedì 23 Maggio 2016, 15:53
Per il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Cardinale Bagnasco, la legge sulle Unioni Civili «sancisce di fatto una equiparazione al matrimonio e alla famiglia, anche se si afferma che sono cose diverse» perché «in realtà le differenze sono solo dei piccoli espedienti nominalisti o degli artifici giuridici facilmente aggirabili, in attesa del colpo finale - così già si dice pubblicamente - compresa anche la pratica dell’utero in affitto, che sfrutta il corpo femminile profittando di condizioni di povertà». 
Parole nette pronunciate con una relazione all’Assemblea della CEI nel corso della quale Bagnasco ha citato la dichiarazione congiunta che Papa Francesco e il Patriarca di Mosca Kirill firmarono il 12 febbraio scorso all’Avana definendo il matrimonio un «atto libero d’amore di un uomo e di una donna» e ha richiamato l’attenzione della politica sui gravi problemi del nostro Paese dove «la platea dei poveri si allarga inglobando il ceto medio di ieri, la porzione della ricchezza cresce e si concentra sempre di più nelle mani di pochi, purtroppo anche attraverso la via della corruzione personale o di gruppo».

Si può essere d’accordo o meno con la presa di posizione del presidente della CEI sulla legge che disciplina le Unioni Civili ma è certo che egli, come tutti i cittadini, ha il diritto di esprimere il parere suo e della Conferenza che presiede in forza dell’articolo 21 della nostra Costituzione. Egli ha poi sicuramente ragione quando richiama l’attenzione del Parlamento sui gravi fenomeni di povertà e sulle stridenti disuguaglianze sociali. Non va però sottaciuto che le parole di Bagnasco hanno fatto seguito (in senso temporale e non eziologico) all’atteggiamento baldanzoso e iattante del premier Renzi che ha così commentato il varo della nuova normativa: «ho giurato sulla Costituzione non sul Vangelo». Una battuta ad effetto ma largamente priva di senso e tale da dare adito alle più diverse interpretazioni.
Il Presidente del Consiglio, che per la precisione non ha giurato “sulla Costituzione” ma - come dice la formula rituale - di «essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi», ha inopportunamente citato in chiave antitetica il nostro Statuto e il Vangelo quasi che sulle Unioni Civili la partita si stesse giocando fra la fedeltà al messaggio evangelico e la fedeltà al nostro Statuto. Nulla di più sbagliato perché la laicità dello Stato è uno dei “principi supremi” del nostro ordinamento costituzionale fatto ormai proprio dalla coscienza democratica dell’intero Paese e perché la Costituzione e il Vangelo sono due testi che, pur essendo di natura intrinsecamente diversa, sono l’uno e l’altro considerati punti essenziali di riferimento da milioni di cittadini italiani per il filo spirituale che li lega. Lo stesso filo che faceva dire allo storicismo agnostico di Benedetto Croce, nel saggio del 1942 dal titolo “Perché non possiamo non dirci cristiani”, che la rivoluzione del cristianesimo ha dato all’umanità “una nuova qualità spirituale che prima ad essa mancava”.

Sarà la Corte Costituzionale, qualora venisse interpellata nei modi previsti dall’Ordinamento, a dire se la legge sulle Unioni Civili sia in linea o meno con il nostro Statuto che all’articolo 2 “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” e all’articolo 29 afferma che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” aggiungendo che “il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi”. E toccherà al Parlamento valutare l’opportunità o meno di apportare al testo della legge eventuali modifiche così come spetterà ai cittadini elettori esprimere la loro volontà sui quesiti di un possibile referendum abrogativo. E sarà infine il tribunale della storia a distribuire, con le sue sentenze pronunciate secondo le regole della democrazia, i torti e le ragioni in ordine alla delicata e discussa riforma. Ma almeno su di una cosa è auspicabile che vi sia una assai larga convergenza di giudizi: sul fatto che la surrogazione di maternità, denominata anche “utero in affitto”, è fonte di offese alla dignità della donna, di sfruttamento della povertà femminile e di gravi discriminazioni sociali. E a tale riguardo va ricordato che il 2 febbraio scorso si è svolto a Parigi un qualificato convegno, organizzato dalle associazioni femministe francesi e patrocinato dal Parlamento di quel Paese, che si è concluso con “la richiesta dell’abolizione universale della surrogazione di maternità” ritenuta una pratica “disumanizzante” e contraria alla dignità e ai diritti delle donne e dei neonati.

Resta il fatto che ancora una volta il Premier ha dato prova della sua propensione ad assumere atteggiamenti che poco concedono al dubbio, all’ascolto e all’incontro e appaiono rivolti più a fare per menar vanto dell’opera (buona, mediocre o cattiva che sia) che a costruire il meglio con la più ampia collaborazione possibile, più a dettare prescrizioni che a concordare soluzioni, più a mortificare i dissenzienti che a trarre vantaggio dalle loro critiche per correggere possibili errori, più a dividere che a unire. Atteggiamenti che presentano peraltro una nota costante: quella di una infastidita intolleranza nei confronti di quelle “formazioni sociali” (sindacali, culturali, religiose) nelle quali si svolge, come dice il citato articolo 2 della Costituzione, la personalità dei cittadini. Ne viene fuori una politica povera di seri progetti ma ricca di colpi di scena, guidata da un protagonista che fa e disfa (alleanze e intese), afferma e nega (come la trasformazione del referendum costituzionale in un plebiscito sulla sua persona), elargisce e sottrae (come i vari bonus e il Jobs Act che sta dimostrando tutti i suoi limiti e tutti i suoi errori), spinge davanti e torna indietro (come l’andirivieni della politica estera specialmente per la Libia). Una politica “pirotecnica” che, come è destino di tutti i fuochi d’artificio, fa molto rumore e propone aspetti accattivanti ma finisce per lasciare nell’ambiente un buio più cupo di prima per i densi fumi e gli acri odori sprigionati dalle provocate esplosioni.
 
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