La cultura esiste solo se fondata sulla memoria

di Antonio ERRICO
5 Minuti di Lettura
Giovedì 22 Dicembre 2016, 16:10
Tutto si costruisce sulla fondamenta. È una cosa così scontata che non ha bisogno di essere detta e forse neppure pensata. Non esiste teoria e non esiste prassi, non esiste disciplina, non esiste scienza, pensiero, parola, baracca, cattedrale, sistema, società, civiltà, espressione, occasione, situazione, storia, accadimento, non esiste politica, economia, ragione che non abbia fondamenta, non esiste religione e neppure sentimento.
Anche il sentimento ha fondamenta: deriva da un’emozione o da un altro sentimento. Le fondamenta del presente sono costituite dal passato: dalle sue tracce e dalle sue manifestazioni; quelle del futuro da quanto, ora e qui, costituisce il presente: dalle tracce che resteranno per domani, domani l’altro.
Non bisognerebbe dirlo, neppure pensarlo; è così scontato che dirlo e pensarlo risulta straordinariamente banale.
Però, certe volte si ha l’impressione che si attraversino stagioni nelle quali in molti contesti, in molte circostanze, le fondamenta restino ignorate, perché si tende a trascurare, in qualche caso anche a cancellare le fondamenta sulle quali abbiamo costruito o stiamo costruendo una cultura. Se è possibile sostenere che le fondamenta sono la memoria dalla quale si sviluppano le storie, certe volte si ha l’impressione che si proceda senza tener conto della memoria, più o meno consapevolmente, più o meno intenzionalmente. La memoria viene oscurata o comunque relegata in spazi senz’aria, come qualcosa di marginale, improduttivo, o che può addirittura rappresentare un impedimento per lo sviluppo. Come dice la voce di Edith Conant nell’ “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters, la memoria, le memorie, se ne stanno sole, perché nessun occhio le vede; sole, timorose, con gli occhi chiusi nell’infinita tristezza di piangere.
Non vogliamo leggere - o non sappiamo leggere? - le tracce lungo i sentieri aperti da chi c’è stato prima, quasi a voler presuntuosamente dimostrare che quel sentiero in mezzo al bosco lo stiamo aprendo noi, a mani nude.
Sono sempre meno frequenti le circostanze e i contesti in cui i ragionamenti di sviluppano partendo dalle narrazioni del com’era e del come eravamo e del come siamo arrivati ad essere nel modo in cui siamo.
Tutto ha principio nel momento esatto in cui ci si trova. Tutto si consuma in quel momento stesso. Quasi che un’epidemia di smemoratezza ci avesse contagiati. O come fossimo divinità venute sulla terra, o in una delle innumerevoli piazze virtuali, a rivelare una verità che non proviene da nessun pensiero e che non potrà avere mai un’alternativa. O come se tutto quello che è stato fosse stato assolutamente vano e tutti coloro che sono esistiti fossero esistiti assolutamente invano.
Non vogliamo leggere le tracce. Forse non sappiamo. Se è vero che non vogliamo, allora si può ipotizzare che esista una motivazione soggettiva e collettiva per la rimozione della memoria. Addirittura si potrebbe considerarla una scelta, una posizione ideologica, e di conseguenza giustificarla.
Se è vero che non sappiamo, la cosa potrebbe essere anche considerata come una colpa culturale dovuta ad una progressiva rinuncia ad attribuire valenza alla memoria e all’interpretazione delle sue tracce.
Ci muoviamo nei territori culturali come turisti che fotografano qualcosa nel modo in cui è sconoscendone la storia, le fondamenta, le stratificazioni, e quindi i suoi significati.
Ci lasciamo attrarre da una molteplicità di richiami estemporanei, distrarre dalle loro promesse di offerte immediate, sedurre dalle loro apparenze luccicanti.
Tutto sembra facile da fare. Probabilmente, in realtà, molto di quello che si fa è facile davvero, semplicemente per il motivo che esistono le fondamenta su cui poggiarlo. È così scontato che esistano le fondamenta che nessuno ci fa caso. Esistono. Chi le ha gettate non importa; quanta fatica e quanto tempo sono costate non importa. Non importa la memoria.
Forse la verità è che non sappiamo leggere le tracce perché un sistema culturale superficiale ha lasciato intendere che la storia non conta.
Ecco, superficiale. Soltanto una condizione di superficialità e di provvisorietà culturale può ignorare la funzione essenziale che assume la memoria, soltanto la consapevole o inconsapevole considerazione che un’espressione di cultura possa essere destinata al consumo immediato e definitivo. Può ignorare la memoria soltanto quel genere di cultura che non ha l’ambizione di trasformarsi in memoria, di costruire fondamenta per successive realizzazioni.
A volte sembra che molte espressioni culturali - o che si dicono tali - con cui ci confrontiamo non abbiano questa ambizione. Sembra che obbediscano all’ideologia del consumo e a nient’altro. Sembra che il valore di un romanzo, di un film, di un’opera quale che sia, debba essere stabilito soltanto dal mercato: vale se vende. Che di essa rimanga o non rimanga memoria non ha nessuna importanza.
Allora si potrebbe anche ipotizzare che è proprio questa trasversale ideologia del mercato che ha determinato la svalutazione culturale della memoria. Il discorso sarebbe lungo e complesso e complicato.
Ma se si pensa che una rivalutazione culturale della memoria sia indispensabile, non si può fare altro che mettere in atto un processo di educazione.
Così ci si guarda intorno per cercare di individuare chi può pensare, programmare, realizzare un processo di questo genere.
Ci si guarda intorno e non si riesce a scorgere nessun soggetto e nessun contesto che possa farlo. Oppure solo uno: il solito: quello a cui da decenni ormai si affida il compito e la responsabilità esclusiva di ogni educazione e formazione.
Ci si guarda intorno e si vede soltanto la scuola. Che già lo fa. Ma in questo tempo l’impegno che ad essa si domanda è ancora più forte. Non basta più che educhi alla memoria, alla sua bellezza, alla sua essenzialità; non basta più che insegni a decifrare e ad interpretare le tracce, a comprendere che tutto è realizzato e realizzabile sulle fondamenta. Serve anche che diseduchi alla dimenticanza che ghermisce il pensiero.

 
© RIPRODUZIONE RISERVATA