Da troppi anni non sappiamo parlare ai giovani

Da troppi anni non sappiamo parlare ai giovani
di Stefano CRISTANTE
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Sabato 11 Febbraio 2017, 10:54 - Ultimo aggiornamento: 10:59
Mancano pochi giorni al 17 febbraio, una data che non sfuggirà ai commentatori, perché coincide con l’anniversario di un evento politico drammatico per il nostro Paese. Sono infatti passati 40 anni dalla cosiddetta “cacciata di Lama dall’università”. Dove Lama sta per Luciano Lama, l’allora segretario generale della Cgil. Università sta per la Sapienza di Roma.
E la “cacciata” si riferisce al fatto che, il 17 febbraio 1977, il sindacato entrò nell’ateneo capitolino convinto di potersi imporre come mediatore tra agitazioni studentesche in corso e autorità accademiche e ne uscì invece come nemico del “Movimento”. Il segretario del più grande sindacato occidentale di ispirazione comunista venne accolto da fischi e spintonamenti tra servizi d’ordine, che degenerarono presto in rissa collettiva: alla fine Lama dovette interrompere il comizio e riparare in tutta fretta nella vicina sede della Cgil di via dei Frentani. Il mese successivo, a Bologna, un militante di Lotta Continua, Francesco Lorusso, fu ucciso con un colpo di pistola alla schiena partito dalla pistola di un carabiniere, dopo che un gruppo di studenti del Movimento aveva impedito lo svolgimento di un’iniziativa di Comunione e Liberazione. Per due giorni Bologna fu scossa dalla guerriglia, fino all’inattesa comparsa di carrarmati inviati all’ombra delle due Torri dal Ministro degli Interni Francesco Cossiga. Nei titoli di giornale fecero la loro comparsa espressioni come “autonomia operaia”, “movimento del ‘77”, “indiani metropolitani”: le parole-chiave di quell’anno furono, tra le altre, “P38”, “proletariato giovanile”, “repressione”. L’idea di proletariato giovanile, pur linguisticamente antiquata, era politicamente nuova: il soggetto delle lotte del ’77 era una massa di giovani consapevoli di essere parcheggiati in un’istituzione opaca e in decadenza, mentre il numero dei giovani disoccupati cresceva insieme all’uso di massa dell’eroina. Proprio in quegli anni le fabbriche cominciavano lentamente a spopolarsi di forza-lavoro umana e a dotarsi di macchine dal cervello informatico, già predisposte a trasformarsi in robot e a svolgere progressivamente un ruolo sempre più esaustivo nel processo di produzione. Nella fabbrica i giovani scolarizzati non entravano da tempo, né alcuna azienda li avrebbe richiesti se non come tecnici specializzati. Ma, dicevano i teorici di quel Movimento, l’operaio è “sociale”, cioè ormai oltre la condizione dell’operaio “massa” della fabbrica fordista. Quindi la fabbrica si estendeva anche fuori dai capannoni e dalle officine: la società stessa era una fabbrica, con le sue gerarchie e la ricerca di continue aree di sfruttamento per garantire profitti al neocapitalismo. La parola “precarietà” prese a circolare in quel periodo: si avvertiva una grande trasformazione in corso, e si sentiva che si sarebbe potuta sperimentare sulla pelle dei soggetti più deboli, assimilabili a figure devianti e marginali, a cominciare dai giovani dei quartieri delle cinture urbane e metropolitane. La contrapposizione già all’epoca non era più semplicemente tra destra e sinistra, quanto tra garantiti e non-garantiti, cioè tra chi aveva un lavoro stabile e sicuro e chi conosceva per la prima volta una condizione precaria “strutturale”. Su questi aspetti il ’77 è stato decisivo e inaugurale: in quell’anno si comincia a intravvedere un’altra tappa della modernità (quella che solo due anni dopo assumerà la connotazione di “Condizione postmoderna”, titolo del celebre testo di Jean-Francois Lyotard dedicato a questo snodo storico-culturale), la cui ombra si proietta fino a noi, fin dentro il suicidio del giovane Michele di Udine di pochi giorni fa, uno dei tanti trentenni precari e senza prospettive del nostro paese, che ha lasciato una lettera d’addio terribilmente lucida e priva di ogni barlume di speranza, illustrando e spiegando la percezione di sé come soggetto socialmente inutile. È dal ’77 che l’Italia non sa parlare ai giovani, perché non capisce cos’è oggi (e cos’era ieri) la condizione giovanile né quali adattamenti antropologici siano in corso nelle nuove generazioni rispetto all’orizzonte buio che si consegna loro. Dal punto di vista simbolico, il ’77 rappresentò una grande turbolenza. Ci fu uno spazio troppo vasto per l’aggressività e per gli atti violenti. Una parte di questa violenza venne dal Movimento, che flirtò troppo con idee grossolane di rivolta e di catarsi guerrigliera. Ma la violenza venne anche dalle istituzioni. È ancora con un certo sconcerto che ci si avvicina alla lettura di un’intervista del 2008 dell’allora ex-Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il quale dichiarò a Repubblica che occorreva “(…) Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopodiché, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Nel senso che le forze dell’ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano” (l’intervista è all’interno del sito on line di Micromega). Sembra il programma repressivo non solo della stagione del ’77, ma anche di Genova 2001, il raccordo geo-politico tra il ‘77 e i nostri giorni. Genova fu una tragedia, di tale portata da inibire l’empito di partecipazione e di lotta per un’intera generazione. Ora però le cose sono cambiate di nuovo, e in profondità: in Francia Marine Le Pen è la candidata da battere alle prossime elezioni presidenziali, e promette – anche in patinati spot patriottici – di cacciare tutti gli immigrati clandestini dal suo paese. Se le cose andassero così, possiamo immaginare reazioni forti, le stesse che stanno già prendendo forma negli Stati Uniti in seguito all’intransigenza di Donald Trump. La violenza che abbiamo imparato a temere fino alla nevrosi è quella terroristica, di questi tempi. Ma non è l’unica violenza da cui guardarci, se è vero, come purtroppo è vero, che un reparto anti-sommossa della Polizia è irrotto nell’università di Bologna per sedare la protesta di un collettivo studentesco. Un modo molto poco lungimirante per ricordare la nascita di un movimento che ha rappresentato, quarant’anni fa, una lacerazione intergenerazionale in Italia, e i cui temi si ripropongono oggi in uno scenario diverso e persino più inquietante.

 
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