La democrazia muore nell'oscurità senza la libertà di informazione

di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 26 Febbraio 2017, 17:19 - Ultimo aggiornamento: 17:35
Scioccati dagli esiti elettorali in questo o quel Paese occidentale, annichiliti dal tenore delle esternazioni di questo o quel leader populista già statista o aspirante tale, ci stiamo accorgendo, con un po’ di colpevole ritardo, che la democrazia non può (e non deve) essere considerata una scelta irreversibile, una strada senza ritorno. Ci stiamo finalmente rendendo conto, anzi, che essa può rappresentare anche una piccola parentesi nella storia millenaria dell’uomo. Del resto, il potere sulle persone e sulle cose, il governo sugli uomini e sui territori hanno assunto per millenni forme autoritarie e di dominio. Solo da tre secoli abbiamo cominciato a conoscere forme di organizzazione degli Stati e forme della politica democratiche. Ma le fondamenta del mondo che abbiamo conosciuto in Occidente, dall’illuminismo e dalla rivoluzione industriale in poi, stanno crollando una dopo l’altra. E non poteva che essere così, perché nulla più è come allora e tutte le forme umane, anche quelle della politica e dell’organizzazione del potere, hanno un inizio e una fine.

Sono completamente cambiati i modi e i luoghi di produrre e di creare ricchezza (e di distribuirla), abbiamo alle spalle (e davanti noi) una rivoluzione tecnologica che ha travolto e alterato le relazioni umane più importanti, a cominciare da quelle del sapere e del comunicare, oltre ad aver stravolto il modo di (non) stare insieme e di (non) fidarsi, tagliando d’accetta i rami su cui si è fondata in questi secoli la delega e la rappresentanza. Cambiamenti travolgenti che hanno portato allo sfarinamento per usura del tempo delle strutture portanti della società moderna, figlia della Rivoluzione francese. Le democrazie occidentali liberali e le forme della politica che le hanno inverate nel Novecento vivono perciò una crisi organica, di struttura, non di passaggio. Annunciata per molti anni dal processo di globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologica e digitale, e confermata da quella frattura che Bauman ha identificato nel divorzio tra potere e politica, stiamo ora vivendo, di voto in voto, la fine di un mondo.

La fine di un mondo, non la fine del mondo. Elezioni dopo elezioni, dalla Brexit alla Casa Bianca (ma potremmo cominciare dall’esito del referendum francese che affossò la costituzione europea), stiamo entrando in territori sconosciuti, in universi dove tutte le certezze di un tempo rappresentano debolezze o macerie. E, impauriti, ci stiamo rendendo conto che, nei tempi storici, l’era della democrazia rappresenta un granellino nella sabbia dell’umanità e che può essere reversibile. Del resto, a metterci drammaticamente di fronte a questa realtà è anche la diffusa percezione negativa tra i cittadini - non solo italiani - della democrazia e delle sue procedure. Come si fa a non essere preoccupati se dai sondaggi emerge come nettamente maggioritaria la voglia dell’uomo forte al potere? Come si fa a non leggere con inquietudine la notizia che, in Occidente, e soprattutto tra i cosiddetti “dimenticati” e quanti affollano la “terza società”, sono presi a modello l’autocrate Putin o l’efficienza del regime autoritario cinese? E come si fa a chiudere gli occhi e a tapparsi le orecchie di fronte a chi - in America, in Italia e in tutta Europa - dietro lo slogan “uno vale uno” sta creando le basi per una gestione del potere in cui, alla fine, non solo “uno vale più di tutti”, ma solo “uno comanda su tutti”?

Nel pieno di questo storico passaggio d’epoca, dagli esiti ancora incerti soprattutto per l’assenza di un nuovo pensiero forte e lungo come quello di tre secoli fa, stiamo assistendo non solo al declino definitivo delle forme di democrazia rappresentativa, ma anche all’attacco frontale degli altri poteri e contropoteri che hanno caratterizzato le democrazie liberali. Due su tutti: l’indipendenza e la libertà dell’informazione, l’autonomia del potere giudiziario. Due pilastri dell’organizzazione democratica fondata sulla separazione e sul bilanciamento dei poteri. Due pilastri che hanno reso la democrazia - pur nell’accezione minimalista di Massimo L. Salvadori come “governo contendibile a legittimazione popolare passiva” - il miglior sistema nella storia all’umanità. Sulla resistenza di questi due pilastri si giocherà nei prossimi anni la tenuta stessa della democrazia liberale in Occidente. E allora: occhi aperti e nervi saldi. Soprattutto: guai a sottovalutare segnali, posizioni e processi.

L’attacco frontale, aggressivo, demolitorio lanciato da Trump al mondo dell’informazione è l’aspetto più grave e inquietante di ciò che sta avvenendo in America, la patria della libertà e del pluralismo dell’informazione. Un aspetto anche più grave e inquietante del muro anti-messicano, dello stop dei musulmani alle frontiere (fermato dai giudici indipendenti, anche loro diventati subito nemici di Trump), del permesso ai petrolieri nelle aree degli indiani. Perché demolire la libertà di informazione, disintegrare il contropotere dei media, cacciare dai briefing le testate considerate nemiche significa voler diventare padroni assoluti e arbitri esclusivi del potere. In nome dei “dimenticati”. Significa, cioè, avere la disponibilità e la possibilità di far diventare la verità un falso, e di far passare un falso come verità (basti pensare all’attentato in Svezia). Ma il vento forte di insofferenza verso il contraddittorio e la libera circolazione delle idee non soffia soltanto in America. Cosa dire dell’arringa sgrammaticata del deputato Di Battista a Montecitorio con una folla inferocita per le licenze che sbotta: “Li ammazzeremo noi gli infami giornalisti”? E cosa dire del tribunale del popolo proposto da Grillo contro i giornali e i giornalisti che non assecondano il suo verbo e che fanno le pulci - come, del resto, le avevano fatte a Marino - alla disastrosa giunta Raggi a Roma? E ancora: cosa dire dell’altrettanto sgrammaticato Di Maio che invia all’Ordine dei giornalisti l’elenco dei cronisti che si sono occupati delle inchieste giudiziarie sulla giunta Raggi, invitando il presidente della categoria a prendere provvedimenti? E cosa pensare del nuovo Che Guevara in salsa pugliese, Michele Emiliano, di recente oggetto di ritratti poco lusinghieri su molti quotidiani nazionali per le “giravolte” nella vicenda della scissione del Pd, che ha promesso di vestire i panni di “liberatore” delle redazioni giornalistiche non appena vincerà le primarie (se pensasse, forse, a risolvere almeno un problema nella Puglia che lo ha eletto appena un anno e mezzo fa farebbe molto meglio)?

Intendiamoci: che il potere politico soffra l’informazione e viva come nemico chi disturba il manovratore non è una novità. Non solo: che il potere attacchi l’informazione soprattutto quando è in difficoltà è cosa nota. Ma qui siamo di fronte a un processo diverso e più profondo rispetto alla normale dialettica tra poteri, che pure in passato non è mancata. In America come in Italia. Chiudiamo gli occhi e immaginiamo una società in cui chi gestisce il potere consente solo quotidiani addomesticati, emittenti a suo sostegno e controlla strettamente la rete. E immaginiamo una società in cui chi gestisce il potere, senza alcun contraddittorio, può avere la possibilità di far diventare la verità un falso e un falso una verità. In questo viaggio immaginario, facciamoci anche tornare alla mente che la prima vittima dei regimi autoritari - nazismo, fascismo e comunismo insegnano - è la libertà di stampa e l’indipendenza dell’informazione. Poi riapriamo gli occhi e convinciamoci che questa prospettiva, inimmaginabile fino a qualche anno fa, non è proprio così remota. Non a caso The Washington Post ha deciso di scrivere, da ieri, sotto la testata: «Democracy Dies in Darkness». La democrazia muore nell’oscurità. Capito? La democrazia ha bisogno di luci. Tante luci. Moltissime luci. Perciò, diffidiamo di chi, nel falso nome dei “dimenticati”, vuole risospingerci nell’oscurità.
 
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