Solidarietà, educazione e politica in don Tonino Bello

don Tonino Bello
don Tonino Bello
di Mons. Vito ANGIULI*
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Domenica 6 Maggio 2018, 19:58 - Ultimo aggiornamento: 19:59
Mentre in Italia siamo in una fase di stallo per i veti incrociati tra i partiti e la difficoltà di dar vita a un governo che sia capace di affrontare i gravi problemi della nostra società, può essere utile riprendere alcuni aspetti del pensiero di don Tonino Bello, anche per i risvolti che essi possono avere nella situazione che stiamo vivendo in questi giorni. In questo articolo, ne richiamo tre: la solidarietà con i poveri, l’educazione dei giovani, un’azione politica intesa come “arte nobile e difficile”. Dal suo ambiente, don Tonino ha attinto e sviluppato una spiccata sensibilità verso i problemi sociali, in modo particolare verso i temi del lavoro, dimostrata fin dagli scritti giovanili durante gli anni degli studi teologici presso il Seminario dell’Onarmo di Bologna.

Ha considerato la precaria situazione dei braccianti di Puglia, l’instabilità e la precarietà del lavoro, la meschina retribuzione. L’educazione ricevuta durante la sua infanzia, in famiglia e nella comunità parrocchiale, è stata la scuola di vita da cui ha imparato l’amore a Cristo e ai poveri. Ha inteso la scelta preferenziale verso gli ultimi non come uno slogan, ma come una concreta attuazione del Vangelo. I poveri non sono solo i destinatari dell’annuncio, ma sono anche i depositari della fede e i soggetti privilegiati dell’evangelizzazione. Per questo ha scelto come motto episcopale l’espressione: «Ascoltino gli umili e si rallegrino» (Sal 33,3). Ha preferito parlare di “ultimi”, volendo con questo indicare tutte le forme di povertà senza escludere nessuna e sottolineare che essi sono i protagonisti della storia di salvezza (cfr. vol. V, pp. 115-116).

Ha vissuto, poi, il servizio ai giovani in due direzioni: mostrare a ognuno di loro il fascino di seguire Cristo e accompagnare i seminaristi a scoprire la bellezza della vocazione sacerdotale. Alle nuove generazioni ha insegnato a incamminarsi sulla via della santità, praticando la virtù dello stupore e della meraviglia, la capacità di sognare e di avere grandi ideali, la passione per la vita, la gioia di godere di ogni frammento di tempo, la bellezza di servire gli ultimi. Nella famosa preghiera Dammi, Signore, un’ala di riserva, li ha esortati a osare, a spiccare il volo come un gabbiano all’ebbrezza del vento, assaporando l’avventura della libertà, con la fiducia di chi sa di avere il Signore come partner del proprio sogno (cfr. III, pp. 315-316). Ha invitato gli educatori a instaurare un rapporto di reciproco ascolto e fiducia, senza atteggiamenti paternalistici, ma scommettendo sulle sorprese di Dio e lasciando che i giovani siano liberi e protagonisti della loro esistenza (cfr. II, pp. 352-353).

Ai seminaristi ha mostrato che la vocazione è un’evocazione: un atto d’amore creativo e personale, una forza attrattiva che fa innamorare di Cristo, una capacità di sognare e di guardare in avanti verso il futuro con audacia, una coraggiosa decisione di decentrare la propria esistenza per metterla a servizio degli altri, un’esperienza di abbandono alla volontà di Dio, l’unico che è capace di trasformare la vita in una festa. Ha esorato gli accompagnatori vocazionali a mettersi a servizio dell’iniziativa educativa di Dio, praticando la “pedagogia della soglia” sostando cioè «sul portone della loro coscienza, senza invaderla» (vol. III, p. 220).

E’ stato, infine, formatore di coscienze laicali mature attraverso la sua azione divulgativa e formativa dei temi conciliari, in particolare delle quattro costituzioni. Sapeva parlare ai più esigenti e farsi capire dai più semplici. Ha educato tutti a discernere con attenzione i segni dei tempi. Riteneva, infatti, essere sempre più necessario mettersi in ascolto del futuro, leggere in profondità le linee di tendenza dello sviluppo sociale per intuire quale tipo di servizio la Chiesa dovesse fornire ai giovani, ai lavoratori, al mondo della cultura. Ha suggerito di guardare con occhi nuovi la realtà perché «a fare problema, più che le “nuove povertà”, sono gli “occhi nuovi” che ci mancano. Molte povertà sono “provocate” proprio da questa carestia di occhi nuovi che sappiano vedere. Gli occhi che abbiamo sono troppo antichi. Fuori uso. Sofferenti di cataratte. Appesantiti dalle diottrie. Resi strabici dall’egoismo. Fatti miopi dal tornaconto. Si sono ormai abituati a scorrere indifferenti sui problemi della gente» (vol. II, pp. 396-397).

Ha invitato i laici ad essere animatori della carità, a farsi promotori di giustizia, a vivere forme di volontariato, a perseguire una seria formazione politica «senza la quale i poveri si trasformeranno in massa manovrabile da parte di coloro che hanno in mano le leve del potere economico, politico e culturale» (vol. V, p. 110 ). Agli uomini impegnati in politica ha ricordato che la politica è un’arte “nobile e difficile” che non deve essere deturpata da una pratica faccendiera, da manovre di basso rilievo, ma deve essere sostenuta da una dimensione contemplativa della vita, valorizzando il silenzio e l’invocazione e mettendo al centro il bene comune e il supremo valore della persona.

In conclusione, l’attenzione alle diverse forme di povertà, un rinnovato impegno educativo nei riguardi delle nuove generazioni e un’azione politica intesa come “arte nobile e difficile” non sarebbero tre punti intorno ai quali trovare una convergenza tra le diverse anime presenti nella società civile e, di conseguenza, giungere in fretta a un’intesa tra i partiti per promuovere una coesione sociale e dare vita a un governo stabile, duraturo ed efficace?

*Vescovo di Ugento-S. Maria di Leuca


 
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