Renzi e la tagliola di Draghi

di Mauro CALISE
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Venerdì 17 Febbraio 2017, 16:07
Ora, lo scontro vero sarà sull’occupazione della scena. Se, cioè, per i prossimi due mesi si parlerà del congresso Pd. O di quello del nuovo partito che gli scissionisti vorrebbero mettere in piedi. Se lo celebreranno appena dopo l’annunciata vittoria di Renzi, o se cercheranno di rompergli prima quante più uova nel paniere. Purtroppo, in un caso e nell’altro, dovremo sorbirci uno spettacolo che non ha niente a che vedere col futuro. Anzi, è la replica fuori tempo massimo di un dramma che si è già consumato. In questo hanno ragione Bersani e il suo pupillo Speranza quando dicono che la scissione c’è già stata. Non però, come vorrebbero intendere, nelle scelte del segretario. Ma in quelle dell’elettorato. Che se ne era già andato dalla Ditta quattro anni fa come tutte le analisi del voto ci hanno dimostrato e proprio in quelle componenti giovani ed operai che oggi continuano a mancare all’appello. A Renzi si può, tutt’al più imputare di non essere riuscito a riprenderseli. Ma a farli scappare via erano stati gli oligarchi Pd che oggi con una certa faccia tosta si lamentano che, nel partito, il popolo lo avrebbe fatto fuori il segretario.
Non è quindi chiaro a cosa mirino, a che tipo di elettorato pensino di rivolgersi il drappello di ex-fondatori che continuano a minacciare di mettersi in proprio. La vera ragione per cui, a dispetto dei proclami continui, ancora non l’hanno fatto è che da vecchie volpi non si fidano dei sondaggi che gli accrediterebbero 5 o 6 punti percentuali. Sanno perfettamente di rischiare di autocandidarsi all’estinzione.
Al tempo stesso, però, a questo punto restare dentro diventa sempre più difficile. Sia perché non sembra più sopportabile, Renzi lo ha detto a chiare lettere, che la minoranza continui a ritenere di poter votare a piacimento, in libera uscita alla Camera e al Senato. Con una scissione parlamentare di fatto che pesa, all’atto pratico, ben di più di quanto inciderebbe quella formale negli organi partitici. Sia perché Renzi si è convinto, in cuor suo, che, se gli oligarchi se ne andassero, non è detto che, elettoralmente, il suo Pd ci andrebbe a perdere. Magari, nell’immediato, ci sarebbe qualche contraccolpo. Ma, dopo qualche settimana di bagarre, l’immagine che ne verrebbe fuori sarebbe quella di un partito rinnovato. Addirittura rigenerato, se nel frattempo gli riuscisse l’innesto di un po’ di energie nuove, per esempio con qualche accordo strategico col campo progressista che Pisapia sta cominciando ad allestire. Ciò che Renzi, oggi, teme di più è che si prolunghi all’infinito questo clima di corrida interna.
Un clima soprattutto mediatico, senza reale riscontro nel Paese, nei reali problemi con cui il governo dovrebbe misurarsi. Ma si sa come sono fatti i giornali, niente li attizza di più degli scontri tra fratelli-coltelli, con tutto il corredo di rancori, veleni e autodafè che inesorabilmente condiscono questo tipo di pantomime. Pazienza che un tale teatrino poco o niente abbia a che vedere con le sfide ben più impegnative che riguardano molto da vicino il benessere degli italiani. La scadenza più delicata dovrebbe arrivare in ottobre. Quando, preso atto della ripresa europea ormai sempre più galoppante, Draghi potrebbe mollare lo scudo del quantitative easing. E lasciare l’esecutivo in carica alle prese con una manovra del tipo lagrime e sangue. È questo il tornante cui punta la minoranza Pd, l’unica vera ragione per far durare la legislatura. Sperando che la patata bollente di una finanziaria draconiana ricada sulla testa del tandem Renzi-Gentiloni. E che, con questa tegola in testa, si ritrovino a dover subire la tagliola delle elezioni a febbraio.
Al contrario, l’anticipo di Renzi punta ad andare alle urne un po’ prima anche soltanto qualche settimana prima che l’Europa ci presenti il conto. In modo da poter meglio affrontare, forti della investitura ricevuta, la stretta di provvedimenti impopolari. Ovviamente, come sempre nel caso di macro scenari internazionali, il quadro potrebbe cambiare a vista. Proprio per questo, però, Renzi ha bisogno di tenersi le mani libere sulla data del voto. Piuttosto che farsele legare dalle trappole che la minoranza interna vorrebbe continuare a seminare, a tempo indeterminato, sulla sua strada. Certo - almeno per gli italiani - sarebbe molto meglio se di questo, e soltanto di questo, si parlasse. Ma non facciamoci illusioni. La scissione, che è stata già abbondantemente praticata sia nella società che in Parlamento, adesso deve andare in scena sul teatrino della politica politicante. È la legge della politica spettacolo. Anche quando lo spettacolo non interessa più nessuno
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