Dal governo delle città la spinta a rinnovare politica e Paese

di Claudio SCAMARDELLA
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Lunedì 12 Giugno 2017, 00:40
In mille comuni italiani, tra cui Taranto e Lecce, oggi si vota per l’elezione del sindaco e il rinnovo dei Consigli. C’è una considerazione che viene naturale dopo la settimana dei clamorosi colpi di scena a Roma sulla nuova legge elettorale e dopo il voto nel Regno unito che ha prodotto un Parlamento senza una maggioranza: se l’Italia fosse un paese serio e, soprattutto, un paese normale avrebbe scelto da tempo l’unico sistema elettorale che dal 1993 ad oggi ha sempre funzionato, garantendo nella gran parte dei Comuni al di sopra dei 15mila abitanti sia la rappresentanza sia la governabilità, tranne nei rarissimi casi della cosiddetta “anatra zoppa” (sindaco di uno schieramento, maggioranza in Consiglio di un altro schieramento).

Nel disastroso naufragio della seconda Repubblica, la sola riforma che è riuscita a salvarsi è stata, non a caso, l’elezione diretta dei sindaci. Ha garantito l’alternanza al governo in molte città, ha attirato nelle competizioni intelligenze e competenze anche non strettamente politiche (cosa diversa dal falso civismo e dalla proliferazione delle liste civiche di cui ci siamo occupati su queste colonne), ha migliorato nel complesso l’amministrazione dei Comuni, ha dato ai cittadini la possibilità di interagire direttamente con i governanti legittimati dall’investitura popolare ad ascoltare, prendere le decisioni e dare in molti casi una risposta ai bisogni. 

Ha anche formato e prodotto, in verità, un ceto politico capace poi di scalare i gradini istituzionali e di farsi valere sulla ribalta nazionale per pragmatismo e cultura di governo. Al netto dei guasti derivati dalla pasticciata sbornia del federalismo fiscale degli anni passati e dei continui tagli nei trasferimenti agli enti locali, al netto anche dei fenomeni di malcostume clientelare e delle infiltrazioni - soprattutto al Sud - della malavita nelle istituzioni, è proprio nelle realtà locali che si è riscontrata, negli ultimi due decenni, una più alta rispondenza tra “cose annunciate” in campagna elettorale e “cose realizzate” durante il mandato. Al Nord come al Sud. Una conferma che la democrazia può funzionare anche in Italia se si mettono in campo regole giuste e sistemi non farraginosi.
L’elezione diretta dei sindaci ricalca a grandi linee (non ci sono collegi, ma c’è il ballottaggio) il modello francese, quello stesso modello che un mese fa ha dimostrato di poter sopravvivere anche in presenza di un collasso del tradizionale sistema partitico bipolare. Come a Parigi un mese fa, stasera o, al massimo, tra quindici giorni in caso di ballottaggio, sapremo il nome di chi governerà le nostre città per i prossimi cinque anni. Una buona cosa, che dà un senso anche al ruolo dell’elettore: è anche per questo, forse, che nelle Comunali il tasso di partecipazione resta il più alto di tutte le altre competizioni elettorali. 

Sarebbe un’ottima cosa anche per il Paese. Le elezioni con il doppio turno di collegio e ballottaggio risponderebbero a due esigenze fondamentali per una società ancora pervasa da profonde fratture sociali, territoriali e culturali: al primo turno, la conservazione e anche l’esaltazione delle identità; al secondo turno, l’opportunità di creare alleanze e incubare coalizioni di governo. Non a caso, il padre della politologia italiana moderna, Giovanni Sartori, ha sempre indicato nel sistema francese il modello più efficace per l’Italia, l’unico in grado di non intrappolare in una pericolosa camicia di forza le diverse identità politiche, ma di garantire al tempo stesso la governabilità in un Paese e in un sistema partitico fin troppo frammentati. Ma l’incrocio perverso tra massimalismi e particolarismi ci ha sempre tenuti lontani da quel traguardo. Si andò vicini, in verità, con la Bicamerale del ‘97, ma anche in quell’occasione l’accordo saltò all’ultimo momento per esigenze personali non corrisposte e una violenta campagna mediatica contro l’inciucio. 

L’incapacità di dare un sistema elettorale normale al Paese, magari senza declinazioni al latinorum, deriva da due fobie tutte italiane, apparentemente contrapposte, eppure interpretate nel tempo, a turno e in base alle convenienze di parte del momento, da tutti gli attori della scena politica. La prima: la contestazione ai modelli maggioritari, più o meno spinti, ha sempre trovato un punto d’attacco nella retorica della paura dell’uomo solo al comando, dell’uomo forte, delle leadership carismatiche e solitarie nelle cui sole mani verrebbero a concentrarsi i destini del popolo. Nel Paese che ha conosciuto il fascismo, e dove un’intera letteratura politica ha sempre evidenziato soprattutto i rischi della debolezza della democrazia piuttosto che le opportunità della sua crescita, questo filone continua a essere molto influente e si oppone a ogni tentativo di passaggio a un sistema maggioritario vero, agitando puntuale il pericolo di derive autoritarie. Perfino sulla legge elettorale in vigore nei Comuni c’è chi continua a storcere il naso per il rischio dell’uomo forte da investitura popolare (talvolta plebiscitaria) e per l’avvenuto svuotamento (falso, in realtà) dei poteri delle assemblee elettive. Si arriva anche a rimpiangere il passato, quando sindaci e giunte comunali - sulle orme dei governi nazionali - cambiavano a ogni stagione dell’anno.

La seconda fobia deriva, invece, dall’ormai ossessiva dietrologia delle trame oscuree e degli accordi segreti. La contestazione del proporzionale puro (tipo Prima repubblica italiana) o corretto (il modello tedesco e la variante spagnola) viene dalla fobia verso il compromesso ridotto sempre a “inciucio”, parola che continua ad avere grande seguito nel lessico politico italiano. Come se il compromesso e gli accordi tra forze politiche distinte e anche distanti tra loro fossero sempre sporchi, intrisi di affarismo e necessariamente realizzati sulla pelle dei governati. E come se la politica non dovesse avere nel proprio Dna la tendenza a sintetizzare le diversità, a trovare mediazioni tra posizioni divergenti, a produrre anche soluzioni unitarie di fronte a questioni complesse e, soprattutto, in assenza di maggioranze forti. Abbiamo visto, nei giorni scorsi, quanto determinante sia stata questa fobia nel contrastare l’accordo, poi saltato, sulla riforma elettorale in senso proporzionale, certo discutibile e pasticciata quanto si vuole, ma comunque un passo avanti rispetto alla legge elettorale vigente. Verrebbe da chiedere: non è forse la nostra Costituzione, considerata tra le più belle del mondo dai cosiddetti “duri e puri”, il prodotto di compromessi, accordi, mediazioni articolo per articolo e, perfino, parola per parola? E come sarebbe stato definito, oggi, dagli irriducibili anti-inciucisti il compromesso raggiunto sul famoso articolo 7 della Carta? 

Fobie e retoriche contrapposte, quella verso il compromesso e quella verso il pericolo dell’uomo forte, ma solo apparentemente. Anzi, l’una tiene l’altra, ed entrambe si incrociano perfettamente con i due principali vizi della politica e del popolo italiani, il massimalismo e il particolarismo, che alla fine esaltano l’immobilismo e il “quieta non movere” come metodo di governo e (illusorio) istinto di sopravvivenza. Un immobilismo da tutti deprecato a parole, ma da tutti perseguito nei fatti. Il vero collante tra le due fobie è che da sempre in Italia - a differenza che altrove - la “paura di perdere” prevale largamente sulla “voglia di vincere”. In tutti i settori, dal calcio alla politica. Perché è più facile interdire e contrastare che costruire e scegliere, appare più conveniente (almeno nell’immediato) rinviare che decidere, si corrono meno rischi giocando in difesa che in attacco. Naturalmente, tutto dipende dalla posizione di forza o di debolezza in cui ci si trova al momento. Stando alle riforme istituzionali ed elettorali, basti pensare al centrodestra berlusconiano che, negli anni della parabola ascendente, fece del presidenzialismo e del maggioritario più spinto (modello anglosassone) la propria bandiera e che, invece, oggi è schierato per il proporzionale semi-puro e per un ritorno a una forte centralità del Parlamento rispetto all’Esecutivo. Dall’altra parte, basti pensare alla tradizione comunista e di sinistra, o anche alla cultura politica cattolico-democratica: storicamente hanno sempre osteggiato il maggioritario e il presidenzialismo, solo negli ultimi decenni in larghi settori eredi di quelle tradizioni c’è stata la conversione alle magiche virtù del maggioritario e del rafforzamento dei poteri dell’Esecutivo anche a scapito del Parlamento, a patto però che a ad avanzare la proposta e a trarne immediato beneficio non fossero gli avversari.

Il risultato è che la politica italiana ha praticamente dimostrato la sua “irriformabilità” dal centro, non è stata capace di avere un sussulto riformatore nemmeno di fronte alla travolgente ondata di protesta e di rivolta contro il Palazzo. Anzi, quando l’ha avuto è stata sonoramente bocciata dal popolo per errori, supponenza, veti incrociati e spirito di vendetta al proprio interno. Non ci resta che sperare, perciò, nella crescita di meccanismi virtuosi provenienti proprio dal basso, dalla periferia, dai Comuni. Segnali incoraggianti, va detto, sono venuti anche da questa campagna elettorale. Corretta, civile e, per molti aspetti, anche di contenuti. I candidati-sindaco a Taranto, a Lecce, così come nei comuni più piccoli, si sono sforzati di evitare personalismi e scontri puramente propagandistici, privilegiando le proposte sulle cose da fare. Se un limite è emerso, tranne rare e lodevoli eccezioni, è che si è fatta troppa confusione tra programmi e progetti. I primi anche abbastanza curati e dettagliati, i secondi più fumosi e con un orizzonte troppo chiuso nell’ambito municipalistico. Il fatto che si voti nella stessa giornata a Taranto, a Lecce e in molte grandi città del Salento, poteva essere un’occasione per uscire da logiche strettamente di campanile e per delineare un progetto che investisse l’intera area. Con idee-forza e disegni su scala comprensoriale, sinergie intercomunali, visioni d’insieme. Vediamo ogni giorno quanto tutto ciò manchi a questa terra. A cominciare dal combattere e vincere insieme la madre di tutte le battaglie: la battaglia (di civiltà) dei collegamenti aerei e ferroviari con l’Italia, l’Europa e il mondo. Ma è un limite che si può recuperare. Perché stasera o, al massimo, tra quindici giorni sapremo chi sarà il sindaco per i prossimi cinque anni. 
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