Toccherà al Quirinale sostituirsi ai partiti in libera uscita

di Mauro CALISE
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Lunedì 26 Febbraio 2018, 19:18
Su una cosa sono tutti d’accordo. Che questa – pessima – campagna elettorale finalmente finisca, e si aprano le danze. Quelle vere. Non lo spettacolo sguaiato cui abbiamo assistito in questi mesi. Tutti a promettere tutto, e sempre con toni ultimativi nei confronti dei propri avversari. No. Passati i primi giorni in cui - secondo italica usanza - tutti canteranno vittoria, si cambierà registro. E si dovranno fare i conti. Coi numeri. Certo, c’è ancora chi si aspetta qualche vittoria clamorosa, un vincitore indiscusso che potrà prendersi tutta la posta. Ma non succederà. Anche se il centrodestra andasse addirittura oltre le stime ottimistiche dei sondaggi – che in questi anni non ci hanno mai azzeccato – sappiamo cosa succederà. Cominceranno i litigi. Furibondi. Su chi si debba prendere la leadership. Dopo la schiacciante vittoria del 2008, con un Berlusconi all’apice della propria egemonia, il centrodestra si infilò rapidamente in un vortice di faide interne che lo portarono all’implosione. Oggi, col Cavaliere dimezzato e un Salvini rampante e scatenato, la convivenza a Palazzo Chigi durerebbe lo spazio di un decreto.

E figuriamoci cosa accadrebbe se davvero – come ancora continuano a sperare i transfughi ex Pd – i voti di Leu si potessero sommare a quelli dei cinquestelle producendo una maggioranza in Parlamento. Nel giro di poche settimane, scoppierebbero i fuochi d’artificio.

No. L’idea che da questi partiti – duri e puri – possa nascere una stabile intesa non tiene conto della realtà. La realtà che sono ormai – tutti – partiti in libera uscita. Tenuti insieme soltanto da un capo, privo dell’aura del grande leader. E che sta – abbastanza – saldamente in sella solo finché verrà consumato il rito della campagna elettorale. Poi il bastoncino del comando passerà ai singoli parlamentari. Tutti con un solo obiettivo: non mollare il seggio conquistato. È questa l’unica certezza che abbiamo. E su questa certezza occorrerà costruire le varie ipotesi di governabilità. Mettersi adesso a disegnare ipotesi sui cambi di casacca, su possibili transumanze o smottamenti, è prematuro. Conviene attendere una settimana, quando al posto della nebbia attuale si piazzerà il pallottoliere. E tutti potremo sbizzarrirci a scommettere su quale sarà la sommatoria che prevarrà. Una sommatoria aritmetica, di basso profilo politico.

La politica che conserverà il suo peso, e lo accrescerà sempre più, sarà quella del Quirinale. Sarà sul colle più alto che verranno tirate – e scombinate – le fila degli esecutivi possibili. All’inizio, rispettando lo stile di understatement del presidente in carica. Poi, inevitabilmente, con un ruolo più incalzante e visibile. Per compensare l’inconsistenza dei partiti con l’autorevolezza della massima carica dello Stato. Per l’Italia, non è una novità. Secondo la celebre definizione di Giuliano Amato, la nostra costituzione assegna al Presidente della repubblica poteri a fisarmonica. Che si allargano e si restringono a seconda della forza degli altri attori politici. Sette anni fa, la crisi del berlusconismo e l’assenza di una valida alternativa a sinistra furono all’origine del ruolo chiave assunto dal Quirinale. Al punto che costituzionalisti e politologi concordarono nel definire l’Italia – di fatto anche se non di diritto - una repubblica semi-presidenziale. Certo, la personalità dei Presidenti è un fattore importante nel produrre – o non produrre – quest’esito. Ma è il caso di ricordare che gli esordi – estremamente cauti e riservati – del settennio di Napolitano non lasciavano certo presagire il protagonismo e il dirigismo con cui, all’esplosione della crisi, avrebbe condotto l’Italia fuori dalla tempesta.

E sarà di nuovo il Quirinale chiamato – costretto – a riempire il vuoto che i partiti hanno riaperto. Un vuoto – drammatico – di leadership. Perché è questa, nel bene e nel male, la bussola delle democrazie contemporanee. Una leadership che riesca a trasmettere, ad elettori sempre più disorientati, una iniezione di credibilità, di fiducia. Quando la politica annaspa nell’adempiere a questa funzione, spetta alle istituzioni più alte assumerne la responsabilità.



 
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