Dalle urne un Paese spaccato in due

Dalle urne un Paese spaccato in due
di Massimo ADINOLFI
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Lunedì 5 Marzo 2018, 16:59 - Ultimo aggiornamento: 17:41
L’affidabilità dei numeri che hanno preso a circolare subito dopo la chiusura dei seggi, sulla base dei quali scriviamo, non è molto alta. Perciò, lasciando da parte gli scenari complessi che si disegneranno dopo il voto, e che impegneranno il sistema politico-istituzionale nelle settimane a venire, mi limito a segnalare alcune tendenze di fondo che è possibile fin d’ora registrare, con le cautele del caso. La prima di esse è sicuramente la vittoria del Movimento Cinque Stelle. La seconda è la vittoria fragorosa del Movimento Cinque Stelle nel Mezzogiorno. Al dato nazionale, di per sé rilevante, si aggiunge il dato nelle regioni del Sud: ancora più rilevante.

Una legislatura giunta a scadenza naturale, con tre governi a guida Pd succedutisi negli anni, non è riuscita a arginare un fenomeno che non ha analoghi nelle altre democrazie mature. Anche negli altri Paesi europei sono in realtà cresciute in misura significativa formazioni populiste, e i partiti storici mostrano la corda.  Ma in Italia questa ondata sembra caricarsi di una valenza ulteriore, dovuta allo scollamento profondissimo fra la società civile e il sistema politico. Ogni voto dato al Movimento Cinque Stelle è un voto dato per mandare a casa gli altri. Tutti gli altri. Il Movimento drena voti a destra come a sinistra. Analisi di questo tipo hanno già accompagnato, in realtà, il clamoroso successo dei grillini nel 2013. Trascorsi cinque anni, siamo daccapo, anzi peggio, visto che gli exit poll danno i Cinque Stelle ben più avanti del 25% registrato allora. Primo partito allora, di un’incollatura, primo partito anche nel 2018, con distacco (se gli exit poll non ingannano). C’è qualcosa di profondo e quasi di immedicabile nel modo in cui gli italiani rifiutano l’offerta politica tradizionale. C’è un’onda lunga che viene dal ’94: col senno di poi, c’è persino il rischio che le esperienze politiche maturate nel corso della seconda Repubblica appaiano solo come puntelli provvisori e del tutto insufficienti, reti di contenimento per frenare uno smottamento che tuttavia continua, come se gli italiani fossero ancora in cerca di un anno zero da cui ripartire.

Ma nel Meridione il risultato dei Cinque Stelle è ancora più cospicuo. In Sicilia, in Campania, il M5S è molto al di sopra della media nazionale. Il confronto con la Lombardia (dove si è votato anche per le Regionali) è impietoso. Questo vuol dire che c’è un terzo del Paese al quale centrosinistra e centrodestra non riescono più a parlare. È chiaro che la parte del Paese che ha maggiormente sofferto la crisi è quella più lontana dalle proposte di governo. Ma in un voto così massiccio bisogna leggere qualcosa di più, e cioè la conseguenza di una distrazione fondamentale, che ha lasciato il Sud completamente senza rappresentanza. In questi anni non c’è stata, in effetti, una sola voce significativa che sia venuta dalle regioni meridionali.

Non ci sono state personalità di spicco, ministri o leader politici che abbiano saputo farsi interprete delle istanze del Mezzogiorno. Si può dire anzi che i temi del divario fra le diverse aree del Paese siano letteralmente scomparsi dall’agenda politica del Paese. Con il paradosso che il venir meno di una questione meridionale come priorità politica e come tema di discussione nazionale, ha allargato, anziché restringere il solco fra Nord e Sud. Almeno dal punto di vista della geografia politica, che oggi assegna al M5S percentuali degne della Democrazia Cristiana di una volta. Cosa vuol dire infatti che nell’Italia meridionale i Cinque Stelle raccolgono i maggiori consensi? Che esaurita la capacità di governo legata alla gestione della spesa pubblica, i partiti non hanno saputo indicare una via di sviluppo per questa parte del Paese. Si sono limitati a mantenere vecchie reti clientelari: sempre più logore, sempre meno estese, sempre meno credibili. Ma non sono più riusciti a farsi dare una delega vera, fondata su un mandato fiduciario pieno. La fiducia, anzi, è scomparsa. E il risentimento ha prevalso.

Si dirà naturalmente che non si può leggere il voto ai grillini solo in termini di rifiuto, o di protesta. Può darsi. Può darsi, ed anzi c’è da augurarsi che non sia tutto un voto di pancia. Ma il punto vero è che c’è comunque un pezzo di società, di piccola borghesia, di ceto medio impiegatizio, di mondo giovanile, di precariato, che non si riconosce più nella forma che la politica ha preso nel Mezzogiorno: in partiti ormai disossati e senza nerbo ideologico, nei residui circuiti notabilari e di sottogoverno, in richiami tardivi e un po’ pelosi al senso di responsabilità, e che, dunque, vota di conseguenza. E premia Luigi Di Maio. Persino le forme stanche e invecchiate che ha assunto, a sinistra, la proposta di Liberi e Uguali (critica nei confronti del Pd) è rimasta, di fatto, lettera morta. Se poi è vero che la Lega ha preso più o meno gli stessi voti di Forza Italia, è evidente che anche dal centrodestra è venuto un segnale dirompente di cambiamento.

Certo, rimane la sensazione di doversi ora chiedere: come se ne esce? Ma spetterà al capo politico del Movimento dimostrare che i Cinque Stelle sono non la malattia, ma la medicina. Non il problema, ma la soluzione. Non un salto nel buio, ma un balzo in avanti. Non sarà facile, ed è lecito conservare un preoccupato scetticismo.

 
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