Rossi, un manifesto per l'Europa. La speranza seminata per il futuro

di Roberto TANISI
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Lunedì 13 Febbraio 2017, 17:41 - Ultimo aggiornamento: 18:16
Cinquant’anni fa, il 9 febbraio 1967, moriva Ernesto Rossi. Un grande italiano, a giusta ragione considerato uno dei padri dell’Europa unita, anche se molti sembrano essersene dimenticati, perché l’anniversario della sua morte è passato quasi sotto silenzio. Eppure quella di Ernesto Rossi è, insieme ai fratelli Rosselli, Piero Calamadrei, Guido Calogero, Norberto Bobbio, Altiero Spinelli (solo per citarne alcuni), una delle figure più luminose del Novecento italiano, delle quali il nostro Paese dovrebbe andare orgoglioso, la cui memoria andrebbe preservata in un Pantheon ideale: maestri di vita che, soprattutto col loro esempio, col loro rigore morale e intellettuale si sono proposti come esempio per intere generazioni di giovani, facendo sì che l’Italia si riscattasse dal servaggio nazi-fascista e diventasse democratica e repubblicana.
Casertano di nascita, ma toscano di adozione, Rossi fu, essenzialmente, uno spirito libero, ostile al dogma ma pervaso da una sorta di “religione del dovere”, intesa non come principio astratto, ma come “voce di dentro” da ascoltare e seguire, che non ha bisogno della rivelazione di un Dio che premia e castiga, ma che, tuttavia, ugualmente lo spinge ad agire “come se un Dio ci fosse”.
Da giovane ebbe simpatie per il Mussolini laico e socialista, poi divenne intransigente antifascista. Lo arrestarono, infatti, mentre era a scuola e faceva lezione ai suoi alunni, il 30 ottobre 1930. Il regime gliela faceva pagare cara: nove anni di carcere, poi il confino all’isola di Ventotene, dove conobbe Altiero Spinelli, anche lui confinato. E dove, finalmente, poté (con una guardia armata piazzata dietro la porta) vivere un momento d’amore con la moglie Ada, sposata in carcere nel 1931.
L’amicizia con Spinelli, su quello scoglio delle Pontine, si rivelò feconda, perché insieme, con la collaborazione di Giulio Colorni, stilarono il famoso “Manifesto di Ventotene”, contenente i lineamenti della vagheggiata unità dell’Europa. Proprio nel momento in cui l’Europa bruciava sotto i bombardamenti e gli orrori della seconda guerra mondiale. Fu la moglie di Rossi, insieme a Ursula Hischmann, a trafugare da Ventotene il Manifesto, che poi vedrà la luce dopo la caduta di Mussolini, in una edizione ancora clandestina del 1944.
Il Manifesto di Ventotene è, a ragione, considerato il primo testo che indica l’unità europea come soluzione alla barbarie della guerra che si stava ancora combattendo e come “antidoto” rispetto a guerre future. Dopo il 1945 molti altri spiriti europei, da Simone Weil a Frederick Hayek, da Joseph Schumpeter a Jacques Maritain, da Helmut von Moltke a Karl Popper, fornirono un altissimo contributo alla causa dell’unione europea, anche se l’opera di Spinelli e Rossi resterà fondamentale nel campo della politica e dei rapporti fra gli Stati, perché va alla radice delle ragioni della pace e dell’ordine internazionale necessario per scongiurare il ripetersi di tragedie come il secondo conflitto mondiale. Essa indica, infatti, come fondamento della pace non già il regime interno agli Stati, ma proprio quello esterno, del rapporto fra Stati, prospettando come soluzione la via d’uscita federalista in chiave europea.
Qualcuno, oggi, considera il Manifesto niente più che un reperto archeologico e, a dire il vero, l’attuale crisi dell’Unione europea sembra confortare tale punto di vista. Spinte antieropeiste si agitano un po’ in tutti i Paesi e i prossimi mesi saranno probabilmente cruciali per il futuro dell’Unione Europea, con le elezioni politiche che interesseranno Stati importanti come Francia, Germania, Italia e Olanda. La vittoria dei movimenti populisti ed antieuropei e dei loro leader, in costante crescita di consensi, potrebbe rivelarsi esiziale per l’unità del vecchio Continente. Ma anche di fronte ad una vittoria di partiti e leader europeisti, nulla probabilmente potrà essere più come prima. Perché se l’Europa continuerà a trincerarsi al riparo di quanto già esiste, ossia una mera cooperazione economica e (in parte) giuridica, costellata, tuttavia, di gelosie e ripicche, ben difficilmente potrà resistere ancora per molto tempo, perché prima o poi il “sovranismo” la farà da padrone. Se, invece, i Paesi europei saranno capaci di fare un salto di qualità, favorendo l’integrazione e praticando una politica unitaria che non sia solo economica ma anche politica e sociale, allora, forse, l’idea di Spinelli e Rossi troverà nuova linfa e la loro non sarà stata una delle tante utopie della Storia.
Per far sì che ciò accada occorre por mano ai trattati e provare a ridefinire in senso confederale l’organizzazione dell’Unione. Non sarà facile, soprattutto dopo l’allargamento ad est, forse eccessivo e prematuro: il rischio che tutto crolli è reale e concreto, ma non fare nulla non servirà a salvare l’Europa.
Tornando, per concludere, ad Ernesto Rossi, negli ultimi anni della sua vita, egli, con i suoi libri ed articoli pubblicati sul “Mondo” di Pannunzio, denunciò con forza la corruzione, gli sprechi, taluni potentati economici, l’oscurantismo clericale: antichi vizi che, dopo una stagione troppo breve, tornavano a caratterizzare la vita pubblica del nostro Paese. Rossi stigmatizzò il malcostume di un popolo come il nostro in perenne conflitto con le regole, “abituato per secoli a liberarsi col confessionale d’ogni preoccupazione sulla valutazione dei problemi morali ed a rinunciare nelle mani dei dominatori stranieri ad ogni dignità di vita sociale”, ma continuò a battersi fino all’ultimo per le proprie idee di libertà, dignità, intransigenza etica, nella convinzione (o speranza) che il futuro, dopo di lui, sarebbe stato migliore. Continuò a “seminare”, tenendo fede a quanto aveva scritto in una lettera del 1932: “Non occorre credere che debba raccogliere la stessa persona che ha seminato”.
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