Falcone-e-Borsellino: un nome per la giustizia. Anche per il piccolo Di Matteo

Falcone-e-Borsellino: un nome per la giustizia. Anche per il piccolo Di Matteo
di Roberto TANISI
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Lunedì 22 Maggio 2017, 17:48
È stato presentato a Cannes, per la “Semain de la critique”, ed è in uscita in questi giorni nelle nostre sale, il film “Sicilian ghost story”, di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, già vincitori quattro anni fa della medesima rassegna con “Salvo”. Vi si racconta una storia d’amore e di morte, poco nota ai più, quella di Giuseppe Di Matteo, di undici anni, sequestrato e tenuto prigioniero per ben 779 giorni e poi massacrato da “Cosa nostra”. Il suo unico torto era quello di essere figlio di un “mafioso” divenuto collaboratore di giustizia dopo la strage di Capaci, in cui perse la vita Giovanni Falcone. “U picciutteddhu lo abbiamo noi, un fari traggedie”, fu il messaggio inviato da Giovanni Brusca al padre Santino Di Matteo; un modo per dire, nel gergo malavitoso, “non fare il delatore, il doppiogiochista”.

Durante la sua prigionia il bambino venne recluso in un bunker senz’aria né luce, ma seppe mantenere ugualmente un contegno estremamente dignitoso, senza mai lamentarsi o degnare d’uno sguardo i suoi carcerieri. Ad occuparsi di lui furono un centinaio di persone, che lo spostarono più volte da un luogo all’altro della Sicilia, per evitare che potessero rintracciarlo le Forze dell’ordine. Durante uno di questi trasferimenti, di notte, chiuso in catene dentro un sacco, il piccolo si rivolse ad uno dei suoi carcerieri: “Siamo vicini al mare, sento l’odore dei fiori… fammi vedere il mare”. L’autista (e suo carceriere), forse preso da un barlume di pietà, rallentò e aprì i finestrini, in qualche modo venendo incontro al desiderio del piccolo prigioniero di “sentire”, per un attimo, la vita, il mondo di fuori. Un momento di debolezza, quello di Giuseppe Monticciolo, l’ultimo. Pochi giorni dopo, tre uomini vanno ad aprire la cella del prigioniero. Per la prima volta hanno il volto scoperto. Il bambino non capisce il senso di quella novità, non si accorge che uno di essi ha una corda in mano. “Mi liberate?” - chiede con un filo di voce, ormai ridotto a pelle ed ossa. La risposta è un violento spintone. Poi il killer designato esegue l’ordine ricevuto: gira la vittima contro il muro e la strangola con la corda, come un cane (lo chiamavano, infatti, “u canuzzu”). Quindi, per non lasciare tracce compromettenti, i tre gettano il piccolo corpo in un bidone di acido e per facilitare la reazione chimica accendono il fornello a gas posto sotto il bidone. Del piccolo Giuseppe Di Matteo non resterà, letteralmente, più traccia.

Una storia terribile, quella raccontata da Monticciolo, l’«autista» impietositosi per un attimo durante l’ultimo spostamento, divenuto poi collaboratore di giustizia, perché – ebbe a scrivere – non sopportava più la morte di quel bambino, lo scandalo di una regola arcaica (quella di non fare male a donne e bambini) non rispettata.
Ecco, è per fare giustizia di storie come questa e per liberare la Sicilia e l’Italia da quella cappa di piombo, fatta di affari, delitti e omertà, che per anni, per secoli ha gravato (e continua a gravare) sul nostro Paese, che ha vissuto ed è morto Giovanni Falcone. E con lui Paolo Borsellino. E con loro Francesca Morvillo, moglie di Falcone, e gli uomini delle scorte: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli ed Emanuela Loi.

Sono trascorsi venticinque anni da quelle stragi, veri e propri atti di guerra contro le Istituzioni, epilogo sanguinoso di una stagione che gettò l’Italia in uno sconforto ancora più grande di quello degli anni di piombo. Poi, col tempo, è emerso anche che a colpire non è stata solo la mafia e che lo Stato non è del tutto estraneo a quelle morti, moderna reincarnazione di Crono che divora i suoi figli.

Falcone e Borsellino. Meglio, forse, Falcone-e-Borsellino, come un unico nome per due giudici, due fedeli servitori dello Stato che condivisero tutto: sicilianità, amicizia, professione, successi, l’Asinara, sconfitte, infine la morte.

È a loro se si deve il mutato approccio nelle indagini sul fenomeno mafioso: ricerca esasperata delle tracce, verifica di ogni indizio, riscontro analitico dei collaboratori di giustizia, analisi globale ed incrociata dei dati raccolti, lavoro di gruppo fra magistrati e Forze di Polizia, creazione del primo “pool antimafia”.

E finalmente i frutti si videro: il primo maxiprocesso a Cosa Nostra, celebratosi a Palermo, considerato il più grande di tutti nella storia della Giustizia mondiale, e, soprattutto, le prime pesanti condanne per boss e gregari.
Cosa resta, oggi, venticinque anni dopo? Non è facile rispondere a questa domanda. Certo la mafia dei Corleonesi non esiste più o, comunque, non ha la forza pervasiva di allora; e Totò Riina, probabilmente, non è che un paravento dietro cui si nascondono le leve grandi del potere. Ma la mafia, pur silente, è ancora molto forte, comanda senz’armi, avendo con sé larga parte della politica, non solo siciliana. Del resto i processi che si sono celebrati nel corso degli anni hanno portato in galera gli esecutori delle stragi, ma molti personaggi che operarono nell’ombra sono rimasti impuniti: lo dimostrano i ripetuti depistaggi e le grandi difficoltà incontrate dagli inquirenti nel provare a fare luce su una storia che ancora non è stata scritta del tutto. E chissà se mai lo sarà.

Restano, tuttavia, le figure a tutto tondo di Falcone e Borsellino, certamente molto care agli italiani e soprattutto ai giovani, che non li hanno neppure conosciuti, se non su qualche libro o in un film. Due figure sulle quali, peraltro, da anni si esercita una retorica bolsa ed ipocrita. Leggevo, giorni fa, di un leader politico che in un’intervista sosteneva essere Falcone “il simbolo di come dovrebbe essere un magistrato”. Nulla da eccepire nel merito. Peccato però che, quando Falcone era vivo, giornalisti e politici vicini a quello stesso leader – lo ricordava su un quotidiano Giancarlo Caselli - posero in essere una serratissima opera di delegittimazione del magistrato, accusandolo della più grande “debacle dello Stato di fronte alla mafia” e di aver favorito il fenomeno del pentitismo “retaggio di epoche oscure e lontane”, sostenendo che i processi da lui istruiti erano solo “montature” o “messinscene dimostrative spacciate come giuridiche”, indicandolo come promotore di un “diffuso clima maccartista”, frutto di pregiudizi politici più che di argomentazioni giuridiche. E non furono i soli!

L’auspicio, allora, è quello esplicitato anni fa da Roberto Scarpinato: non vedere, in questi giorni di celebrazioni, seduti “tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione di quei valori di giustizia e di legalità per i quali Falcone e Borsellino si fecero uccidere”; e porre fine a quella che lo scomparso giornalista Peppe d’Avanzo bollò come una “umiliante sottrazione di cadavere”, da chiunque perpetrata.

Falcone-e-Borsellino non lo meritano!
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