Falcone-e-Borsellino, dieci domande per superare la retorica del ricordo

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
di Roberto TANISI
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Lunedì 29 Maggio 2017, 16:32
Il 25° anniversario della strage di Capaci (che precede di 57 giorni quella di via D’Amelio) è stato ricordato un po’ ovunque: a Palermo, ovviamente, nei luoghi d’origine delle vittime, nei Palazzi di Giustizia, nelle scuole, nei luoghi delle Istituzioni. La sensazione che se ne è avuta è che l’Italia, come ricorda Aldo Grasso, non abbia ancora “elaborato il lutto” per un trauma collettivo che l’ha colpita nel profondo. La televisione ha riversato nelle nostre case, ancora una volta, le immagini tremende delle esplosioni che costarono la vita ai due giudici, ma anche quei luoghi della memoria così come sono oggi: il giardino realizzato nei pressi dello svincolo di Capaci, con una teca contenente ciò che resta dell’auto - la prima ad essere investita dall’esplosione - su cui viaggiavano gli Agenti Montinaro, Dicillo e Schifani; gli alberi “dedicati” ai due Giudici assassinati, tempestati di biglietti, messaggi, piccoli peluche, ricordini; l’aula bunker dell’Ucciardone, dove si celebrò il primo maxi-processo a Cosa nostra; l’Ufficio in cui lavorava Falcone; una Croma bianca in transito sul luogo dell’esplosione.

Al netto della retorica (che non è mancata in alcune orazioni ufficiali), l’emozione, il ricordo, il rimpianto sono stati avvertiti un po’ da tutti, proprio rivedendo quei luoghi di vita vissuta ed ascoltando le parole di amici e parenti delle vittime, che ne hanno messo a nudo l’umanità e la “quotidianità”: uomini, prima ancora che eroi civili.

Ritorna, tuttavia, il motto di Bertolt Brecht: “Beato quel Paese che non ha bisogno di eroi”. Ma, celebrazioni a parte, il ricordo di quei tragici eventi ci ha sbattuto in faccia anche degli interrogativi rimasti ancora, venticinque anni dopo, privi di risposta (nonostante una miriade di processi). Ne indichiamo solo dieci.

1 – Giovanni Falcone aveva deciso di tornare a Palermo venerdì 22 maggio. Lo disse in una telefonata alla sorella Maria. Solo all’ultimo momento spostò la sua partenza a sabato 23 maggio, avendo deciso di attendere la moglie Francesca Morvillo, impegnata come componente della Commissione per il concorso in Magistratura. Inoltre, giunse a Palermo su un volo “coperto” dei Servizi segreti. Come fece Gioacchino La Barbera ad essere informato dell’arrivo a Palermo di Falcone, tanto da attenderlo su un’auto, con la quale lo seguì lungo la provinciale parallela all’autostrada? E come fu possibile che i tanti componenti del commando fossero informati di tutti gli spostamenti del giudice, così da predisporre un attentato di quella portata, realizzato con meticolosa precisione?

2 – Come mai un personaggio ambiguo come Elio Ciolini, gravitante nell’estrema destra e vicino ai c.d. “Servizi segreti deviati”, in carcere per la strage di Bologna, già ai primi di marzo del 1992 anticipò agli inquirenti che nel marzo-giugno ’92 sarebbe stato ucciso un importante uomo politico della Democrazia Cristiana e sarebbero state compiute delle stragi? Come è noto a marzo ’92 fu ucciso l’on. Salvo Lima, a maggio e luglio ’92 ci furono le stragi di Capaci e via D’Amelio, nel ‘93 l’attacco stragista della mafia si spostò a Milano, Firenze e Roma.

3 – Come mai il 21 e 22 maggio del ’92, appena uno-due giorni prima di Capaci, l’agenzia di stampa “Repubblica” pronosticò che di lì a poco ci sarebbe stato un gran “botto esterno” per sparigliare i giochi in vista dell’elezione del Presidente della Repubblica, che si teneva proprio in quei giorni?

4 - Come mai – e da chi – fu “ripulito” il computer di Giovanni Falcone al Ministero di Grazia e Giustizia?

5 – Come fu possibile, dopo un attentato quale quello di Capaci, che un’altra esplosione uccidesse Paolo Borsellino, il magistrato notoriamente più esposto, con un’auto-bomba che venne parcheggiata proprio di fronte al cancello di via D’Amelio in cui abitava la madre del giudice?

6 – Chi era il personaggio “non mafioso” che presenziò alle operazioni di caricamento dell’esplosivo sulla 126 utilizzata per uccidere Borsellino (ne ha parlato ai magistrati Gaspare Spatuzza, esecutore materiale del delitto).

7 – Chi si impossessò, subito dopo l’attentato, dell’agenda rossa sulla quale Borsellino annotava ogni cosa delle sue indagini, segnatamente dell’attentato in cui perse la vita Giovanni Falcone e di quanto appreso dal pentito Gaspare Mutolo, appena due giorni prima? Dell’esistenza di tale agenda, della sua importanza e del fatto che il giudice la portasse sempre con sé ha riferito la moglie di Borsellino, mentre che l’auto su cui viaggiava il giudice sia stata “ripulita” da appartenenti alle Istituzioni nella immediatezza dell’attentato, ne hanno riferito alcuni testimoni oculari, compreso il Giudice Ayala, che vide l’agenda su un sedile dell’auto, prima che qualcuno la prelevasse.

8 – Come mai Paolo Borsellino, la sera di venerdì 17 luglio disse a sua moglie che di lì a qualche giorno lo avrebbero certamente ucciso, tanto che il giorno seguente, in un Palazzo di giustizia deserto, fece venire un suo amico sacerdote e prese la comunione? Che cosa aveva appreso a Roma – ove, oltre a Mutolo, aveva incontrato diversi rappresentanti delle Istituzioni - da sconvolgerlo sino a tal punto?

9 – Come mai Francesca Castellese, moglie del mafioso Santino Di Matteo, divenuto collaboratore di giustizia, dopo il sequestro del figlio Giuseppe, in una telefonata (intercettata) del dicembre ’93 scongiurò il marito di non parlare degli “infiltrati” che avevano partecipato all’attentato di via D’Amelio? Chi erano questi infiltrati? Come fu possibile che si infiltrassero in un’associazione notoriamente impermeabile come Cosa nostra e come è stato possibile che, poco dopo, si sia instaurato un “dialogo” (qualcuno la chiama “trattativa” e per essa è in corso un processo a Palermo) tra pezzi delle Istituzioni ed esponenti della mafia, come Ciancimino e Provenzano (circostanza acclarata anche nei processi di Firenze sulle stragi)?

10 – Infine come mai, dopo l’arresto di Riina, la casa dove questi abitava, pur sottoposta a sequestro, non fu perquisita e ne fu addirittura impedito l’acceso ai magistrati, salvo, poi, la notte stessa del sequestro, essere interamente ripulita (da chi?) tanto che – come riferisce Roberto Scarpinato, attuale P.G. di Palermo – venne smurata una cassaforte, richiuso e ridipinto il muro perché non restassero tracce di DNA?

Sono solo dieci domande. Molte altre potrebbero farsene, in questo che, da Piazza Fontana in poi, resta il Paese dei misteri indicibili. Dieci domande che, pur prive di risposta, dimostrano come le morti di Falcone e Borsellino, certamente ascrivibili a mano mafiosa, non siano state solo morti di mafia. Uno Stato che si rispetti, che non sia solo a parole nemico della mafia, dovrebbe fare di tutto per dare ad esse delle risposte di verità. Costi quel che costi. Lo richiedono i parenti delle vittime (accorato l’appello della sorella di Antonio Montinaro nel nostro Palazzo di Giustizia), lo richiedono i cittadini, la gente per bene. Perché, come afferma Kant, “la verità prima o poi apparirà per vendicate i torti subiti”.
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