L'estate di Gallipoli, tra esagerazioni e rimozioni

L'estate di Gallipoli, tra esagerazioni e rimozioni
di Rosario TORNESELLO
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Venerdì 4 Agosto 2017, 18:11 - Ultimo aggiornamento: 18:20
Gallipoli torna ad essere il mantra dell’estate, ora che la stagione vive i giorni più caldi e anche il meteo dice che s’è scatenato l’inferno. Via Caronte, arriva Lucifero. Si va a Gallipoli, si scappa da Gallipoli: i ragionamenti seguono la logica binaria della banalizzazione. La riflessione critica si sovrappone al luogo comune e l’immagine offerta alla pubblica esecrazione soffre di approssimazioni aberranti. «Quanto falso è il “vero allarme”?», chiedeva l’altro giorno “Il Foglio” in tema di emergenze estive, in generale, a prescindere. Già: quanto falso è? Cinque punti per una verifica.

Uno: Gallipoli è polo d’attrazione per lo spaccio di droga. Vero. Ma capirai: la città è stata, e in buona parte lo è ancora, base operativa di uno dei più attrezzati clan della Sacra corona unita, che con la droga ha trafficato e non poco, determinando fortune e disastri, fino al fratricidio tra boss figli di boss. La vocazione del luogo alla trasgressione, unita a quelle per lo svago e il divertimento, nel tempo ha trovato varie forme di sublimazione. Più pubblico hai, più appetiti scateni. Ovvio. Ma non è qui - o meglio: non è solo qui - l’Eldorado. «Io, trafficante di cocaina. A Milano lavori da Dio. Vendo etti interi ai vostri figli», titolava il “Corriere della Sera”, in cronaca, il 1° agosto. Sicché, a guardar bene, il problema deve essere precisato: non tanto perché Milano è Milano (e, per non essere provinciali, altro che Gallipoli), ma soprattutto perché il nodo cruciale è, guarda un po’, nei «nostri figli». Il cardine, insomma, è la domanda di droga. La criminalità segue a ruota con l’offerta (però da tre anni neanche un blitz). Eccessi, sballi e corse in ospedale sono l’inevitabile corollario di queste stagioni sciagurate (ma sono d’incanto scomparse le foto dei ragazzi stramazzati a terra sui marciapiedi e tra le auto in sosta: miracolo). Quale deve essere, allora, il punto di attacco?

Due: a Gallipoli servono maggiori controlli. Molto vero. Ma a meno di non trasformare la città nella succursale estiva della Folgore, una volta assodato non sia collegio da educande, sarebbe forse il caso - dopo aver già sperimentato l’Esercito per strada e il potenziamento delle forze dell’ordine - di cambiare strategia operativa prima di cedere alla tentazione di invocare lo sbarco in massa dei Caschi Blu. Tolto qualche posto di blocco, la notte diventa la terra di nessuno in una città che ha stravolto a colpi di rettifica di ordinanze il normale fuso orario, e gli stabilimenti balneari si trovano a essere le nuove rotonde sul mare quando un giorno è finito e l’altro è abbondantemente cominciato, con musica permessa fino alle 2,30 (però solo filodiffusione e niente vocalist, e sai che differenza, e neppure vendita di alcolici e superalcolici, ché tanto ci pensa la provvidenza). Per non parlare delle discoteche. Se l’estate vuol dire notte, giacché di giorno quasi tutti boccheggiano in spiaggia o agonizzano a domicilio o in ufficio, sarebbe il caso di cambiare la normale scansione del lavoro quotidiano sul lato dei controlli e della prevenzione. Da diurno a notturno. Costa? Dovrà pur servire a qualcosa la tassa di soggiorno, o no?

Tre: a Gallipoli non ci sono limiti. Vero, verissimo. E quando ci sono, si trova sempre il modo di spostarli un tantino più in là. Il blitz giù al mercato del pesce, per ridimensionare pescherie diventate ristoranti all’aperto, è la dimostrazione muscolare della sbadataggine: se prima tolleri un tavolo, poi due, poi quattro, poi otto, poi sedici, poi trentadue, è evidente che stai legittimando la trasformazione in diritto di quanto definisci abuso, per cui alla fine serve davvero lo sbarco delle truppe di terra con accerchiamento del nemico. Ma non è l’unico esempio di oltrepassamento dei limiti (anche se è uno dei pochi con annessa repressione). Ci sono notti che balli anche se non vuoi, tanto i decibel, e neppure un’anima buona cui rivolgersi per intervallare lo strazio almeno con un lento e cinque minuti di sonnellino. Serve un cambio di passo nel governo del territorio. Anche perché quando pensi di aver vinto su un fronte (vedi gli ape calessini, multicolor e rintronanti) trovi sempre un giudice che riapre le porte alla sarabanda in centro. Dopo il patto per Gallipoli in prefettura, non sarebbe l’ora di siglarne uno in Comune, per ogni tipologia di attività, con ogni singolo operatore, e per chi sgarra tanti cari saluti?

Quattro: a Gallipoli c’è troppa gente, troppe case pollaio. Vero, in modo lampante, per quanto in lento miglioramento. Si affittano anche i box doccia e le cassette del gas pur di sistemare qualche turista fai da te. L’ultima ventata di controlli ha confermato la vocazione ionica al contorsionismo: undici minori in un appartamento di 60 metri quadri; otto in un garage. A rigore, non ci vorrebbe il mago per scovare gli accampamenti improvvisati: segui le biciclette ammassate, i teli da mare stesi ad asciugare e troverai i nidi dell’oltraggio al sudore, per dire. Sempre siano lodati i controlli a campione, i blitz teleguidati dagli annunci sui pali della luce. Tuttavia verrebbe da chiedere dove sia in realtà il problema: se nei proprietari che affittano, nei ragazzi che locano, nei genitori alquanto distratti che li mandano o in tutti e tre. E poi, piccolo dubbio: come pretendere rispetto delle regole se il buon esempio non viene dall’alto e in centro ogni buco diventa riparo e ogni riparo trasmuta in taverna e, d’emblée, in antica trattoria gallipolitana che fare due passi significa scendere in pista per uno slalom gigante tra tavolini, che poi uno si domanda: ma come faranno gli ape calessini? E come pretendere rispetto se proprio all’ingresso di Gallipoli, sotto costa, c’è la più colossale offesa alla pubblica decenza, quella di uno scarico fognario che in piena estate chissà cosa sversa e per il quale, così, a mo’ di esempio, turandosi il naso perché a volte non ti dico la puzza, verrebbe da chiedere l’esibizione di autorizzazioni, analisi e documenti, anche se ieri a Bari hanno firmato un protocollo per un ulteriore affinamento delle acque, e anzi proprio per questo. Allora, come?

Cinque: a Gallipoli c’è un problema di identità turistica. Vero. Parole sante. Ed è un bel problema. La città è ormai anni luce dalle stagioni d’oro del “Lido” della premiata ditta Torsello-Ravenna. Vive i paradossi e le contraddizioni sedimentate nel tempo dai fasti della storia, dalla natura e dalle miserie umane, rappresentate da quel vis-à-vis che sono il castello e il grattacielo, lo scirocco e la tramontana, il diavolo e l’acqua santa. Sono sbocciate attività, in centro e fuori, che sono fiori all’occhiello dell’ospitalità, dell’accoglienza, dell’arte, del gusto e anche dell’imprenditorialità declinata nelle forme del divertimento (e perciò benedetta fin quando intorno non si ammassano gli squali nel sonno profondo di una politica che avrebbe dovuto per tempo governare il caos senza farsene travolgere). E tuttavia la città fatica a creare eventi, a inventarsi una stagione di qualsiasi tipo, a trovare nelle pieghe della tradizione o negli slanci della fantasia (per non dire della cultura) un marchio, un’idea, uno stile, tolte le sorprese dell’estate: i libri e gli affacci nell’antico maniero. Forse perché, in fondo, è Gallipoli l’evento; è essa il brand di se stessa. O forse solo perché, peccato di presunzione, crede di esserlo con le sue infinite contraddizioni, con i suoi alti e bassi, le discese ardite e le risalite, cui però occorrerà porre presto un limite prima che dall’ottovolante estivo si scenda troppo frastornati e scossi per avere voglia di un nuovo giro, di un’altra corsa. Il turismo, si sa, vive di mode. Che sono come le nuvole: vanno, vengono e lasciano soltanto una voglia di pioggia. Come in questi giorni di fuoco, che non se ne può più.
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