Giudici, la fatica dell'intransigenza. E c'è chi la scambia per protagonismo

Il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio
Il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio
di Roberto TANISI
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Lunedì 10 Aprile 2017, 18:08
La sessione conclusiva del progetto “Oltre le nuvole: a scuola di legalità” – organizzato e realizzato dall’Associazione Libertà & Giustizia, dall’Università del Salento e dall’Associazione Nazionale Magistrati di Lecce a beneficio degli studenti di alcune scuole della provincia – ha visto come principale protagonista il Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione, Giovanni Canzio, che, nell’aula magna della facoltà di giurisprudenza, gremita di studenti ed alla presenza del Magnifico Rettore, ha tenuto un’appassionata relazione sul tema: “Legalità, nomofilachia e processo”.

Un intervento, quello del Presidente Canzio, che, per certi versi, ha costituito la naturale prosecuzione della conversazione avuta la sera precedente, in un incontro informale (ma molto partecipato) con i magistrati leccesi, sul ruolo del giudice nella società che cambia. Due temi che si intrecciano fra loro e sui quali da tempo si dibatte, costituendo l’attività della magistratura asse portante della democrazia, al di là e al di sopra delle tante approssimazioni e semplificazioni cui, sovente, ci è dato di assistere.

La funzione giurisdizionale, infatti, presenta caratteristiche assolutamente peculiari, che la distinguono da tutte le altre funzioni statuali, rispetto alle quali si connota per la sua assoluta autonomia ed indipendenza; tanto che un illustre giurista, Luigi Montesano, ne ipotizzò, addirittura, la collocazione al di fuori dello Stato-Apparato, identificandola con lo stesso Ordinamento giuridico nella sua universalità; col rischio, peraltro, paventato da altra autorevole dottrina (Mortati), di dare spazio ad un pericoloso assolutismo giurisdizionale.
Ma, dispute dottrinarie a parte, è innegabile che il punto di partenza di una adeguata riflessione sulla funzione giurisdizionale non possa che essere la Costituzione.

Le norme che riguardano la Magistratura, scritte da Piero Calamandrei, colpiscono per la secchezza e lapidarietà dei principi che contengono: “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101); “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104); “I magistrati sono inamovibili (e) si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni” (art. 107). Ci si muove nell’ambito della classica teoria della separazione dei poteri, la quale, peraltro, nella formulazione risalente al barone di Montesquieu, assegnava al potere giurisdizionale una posizione in un certo senso subalterna rispetto agli altri due (legislativo ed esecutivo), considerando il giudice come mera “bouche de la loi”, semplice esecutore del comando contenuto nella legge (ma siamo nel 700).

Tuttavia, col passare degli anni e grazie all’elaborazione della dottrina giuspubblicistica più avveduta, questa impostazione è apparsa eccessivamente schematica e non del tutto adeguata a rappresentare “la complessità del modo in cui il diritto si rapporta alla concreta realtà delle società moderne”, la cui dinamica risulta oggi talvolta particolarmente fluida (“liquida”, direbbe Bauman) per essere compiutamente incasellata in una specifica disposizione di legge. Così, già dalla seconda metà del secolo scorso, in seguito all’attuazione, da parte del Legislatore, di alcuni dei principi costituzionali (legge sulla Consulta ed istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura) e ad una nuova e più matura consapevolezza della magistratura (soprattutto quella pretorile), si è ricusata l’idea di una giurisdizione eminentemente formalistica, “indifferente al contenuto ed all’incidenza concreta nella vita del paese”, e si è affermata, al contrario, una figura di Giudice “consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione” (mozione finale del Congresso A.N.M. di Gardone - 1965). La conseguenza è stata la possibilità, fino a quel momento denegata, per il Giudice di applicare direttamente le norme della Costituzione, interpretare le leggi in conformità alla Costituzione (c.d. lettura costituzionalmente orientata) e rinviare all’esame della Corte costituzionale quelle reputate non conformi al dettato costituzionale.

Peraltro, una legislazione sempre più torrentizia, non di rado connotata da notevole opacità, da un lato e, dall’altro, la lievitazione delle fonti normative, primarie e secondarie (essendosi sommate a quelle nazionali, le fonti comunitarie, con l’aggiunta delle pronunce C.E.D.U.), hanno concorso a rendere il tessuto normativo assai meno armonico rispetto al passato, aumentandone, per così dire, il tasso di “liquidità” ed avvicinando sempre più la funzione dell’interprete a quella del Legislatore (tanto che è invalsa nell’uso l’espressione “diritto vivente”, a sottolineare proprio come “la norma giuridica viva nella sua concreta applicazione e perciò si modelli sull’interpretazione che ne viene data”). Da qui la necessità di creare delle “isole di stabilità” per far sì che non resti un mito il principio della certezza del diritto (che significa anche uguaglianza dei cittadini davanti alla legge): tali “isole di stabilità” sono quelle che derivano dall’interpretazione nomofilattica della Cassazione (nomofilachia è parola di derivazione greca che significa letteralmente “proteggere la norma”, ossia garantire l’interpretazione uniforme del diritto). Va da sé, peraltro, che pur essendosi sostenuto da taluno, soprattutto in presenza di qualche sentenza delle Sezioni Unite, che vi sarebbe una sorta di avvicinamento del nostro ordinamento a quelli di common law (i quali si caratterizzano per la funzione normativa dei precedenti giurisprudenziali), che il nostro resta pur sempre un ordinamento di civil law, nel quale la giurisprudenza riveste natura dichiarativa e non costitutiva.

Resta, in ogni caso, l’enorme potere del giudice, “soggetto solo alla legge”, il quale – conclude Canzio – va raccordato al principio di responsabilità del magistrato. Responsabilità che va ben al di là di quella penale o disciplinare, pur importante, afferendo all’habitus mentale di chi è chiamato a decidere, che deve essere ed apparire terzo rispetto alle parti, consapevole che proprio sulla sua terzietà si fonda, in definitiva, il suo compito di rendere giustizia.

Lo affermava, con parole molto più belle delle mie, Piero Calamandrei. Per il grande giurista fiorentino non costituivano pericolo per i magistrati la “rara corruzione penale” o le “simpatie politiche”, solitamente assenti o ininfluenti. Invece esiziale era – ed è – un altro pericolo, che non viene da fuori e che, perciò, è ancora più subdolo. Si tratta del “lento esaurirsi delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate: una crescente pigrizia morale, che sempre più preferisce alla soluzione giusta quella accomodante, perché non turba il quieto vivere e perché l’intransigenza costa troppa fatica”. La peggiore sciagura che può capitare a un magistrato – concludeva Calamandrei – “è quella di ammalarsi del terribile morbo dei burocrati che si chiama conformismo. È… il terrore della propria indipendenza, una specie di ossessione, che non attende le raccomandazioni esterne, ma le previene”. Nulla di più vero. Peccato, però, che tanti magistrati che, nella loro vita professionale hanno mostrato di non avere mai contratto il “morbo dei burocrati” siano stati, poi, forse proprio per questo, tacciati di “protagonismo”.

 
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