Decidere della vita o della morte: così uno spettacolo ci mette in crisi

Decidere della vita o della morte: così uno spettacolo ci mette in crisi
di Roberto TANISI
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Lunedì 27 Marzo 2017, 14:00
“Decidere” è parola che deriva dal latino “de-caedere”, che significa letteralmente “tagliare via”. Rimanda plasticamente all’immagine del sarto che, nel cucire il vestito, è costretto a tagliare pezzi di stoffa, a scegliere quelli che sono funzionali alla esecuzione dell’abito e a metterli insieme, sino alla realizzazione del prodotto finale. Un po’ quello che, in qualche misura, fa anche il giudice, chiamato ad esaminare prove e ragioni delle parti, a vagliarle e, quindi, tagliare via (decidere) quelle che non sono funzionali alla emanazione della sentenza e a mettere insieme le restanti, sino, appunto, alla decisione finale. Dando conto, ovviamente, del percorso motivazionale seguito.

Capita sovente, soprattutto dopo decisioni giudiziarie su clamorosi fatti di cronaca (Novi Ligure, Perugia, Avetrana, oggi Vasto), di sentire commenti e rilievi espressi, a dir poco, con troppa faciloneria, vere e proprie sparate contro il non condiviso contenuto della decisione, fatte, peraltro, da chi non conosce il contenuto di un solo atto processuale. Quasi che “decidere” fosse un’operazione tutto sommato semplice, da fare in tutta fretta, senza ponderare il peso delle conseguenze che la decisione comporta nei confronti delle parti coinvolte in un processo. Ma tant’è! Molte volte mi è venuto di pensare, rispetto a comportamenti del genere: “Quanto mi piacerebbe vedere Tizio, o Caio, così sicuro di sé, al posto del giudice! Vedergli gravare sulle spalle il peso della decisione”. Anche perché, quale Presidente della Corte d’Assise, ho avuto ed ho costantemente modo di rilevare il grande travaglio emotivo che vivono i giudici popolari all’interno della Camera di Consiglio, nel momento della decisione, pur “guidati” dai due componenti “togati”.

Ma, giustizia a parte, la possibilità di cimentarsi con la “decisione” viene offerta, oggi, da uno spettacolo teatrale, non ancora sbarcato in Italia, che ha mietuto successi un po’ in tutto il mondo. Mi riferisco alla pièce intitolata “Terror”, diretta da Sean Holmes su un testo di Ferdinand Von Schirach (avvocato e scrittore, nipote del gerarca nazista ucciso dopo il processo di Norimberga). Ne ha scritto in una corrispondenza da Londra Paola De Carolis su “La lettura”, settimanale culturale del Corriere della Sera.

Già il titolo, “Terror”, rimanda all’attualità, dal momento che oggi nulla preoccupa di più i cittadini del mondo occidentale del terrorismo, che, ancora pochi giorni fa, a Londra, ha dato dimostrazione della sua capacità di colpire chiunque e in ogni luogo (anche perché assicurare la sicurezza di tutti è pressoché impossibile).
Ma la caratteristica di questo spettacolo non sta tanto nel fatto rappresentato, quanto nel finale, che coinvolge tutti gli spettatori. In sintesi si tratta di questo. Un Ufficiale dell’aeronautica è sottoposto a un processo penale con l’accusa di omicidio plurimo. Avendo avuto l’ordine di scortare, con il proprio aereo, un aereo civile dirottato da terroristi, accortosi che invece di allontanarsi dallo spazio aereo nazionale questo velivolo cambia rotta e si dirige su uno stadio dove è in corso la partita Germania-Inghilterra, l’Ufficiale decide di abbatterlo, pur sapendo che a bordo vi sono 164 persone, che, ovviamente, restano uccise insieme ai terroristi (da qui, appunto, l’accusa di omicidio ed il conseguente processo).

Dunque il primo dilemma – e la prima decisione - che lo spettacolo mette in risalto è quello dell’Ufficiale: abbattere l’aereo, nella consapevolezza che ciò comporterà necessariamente 164 morti, oppure attendere, sperando che i dirottatori non si abbattano sullo stadio e però mettendo a rischio, in tal modo, la vita di 70.000 persone?

Si tratta, indirettamente, dello stesso dilemma – e della conseguente decisione – che travaglia i giudici: ha agito bene l’Ufficiale imputato e, dunque, va assolto, oppure è stato avventato, improvvido e, va perciò condannato?
La particolarità dello spettacolo è che questa decisione finale, al termine dello spettacolo, non è lasciata ai giudici, ma agli spettatori, i quali dovranno, con un voto, sciogliere il nodo etico e legale oggetto della rappresentazione (ciò che crea una tensione particolare e visivamente palpabile durante tutto lo spettacolo).
Un questione non semplice da risolvere, che supera la cruda logica dei numeri e che involge considerazioni che si sono presentate tante volte e ancora si presenteranno a chi si è trovato a dover decidere in condizioni simili: l’ufficiale è colpevole o innocente? Se egli ha semplicemente ubbidito agli ordini, basta questo per sottrarlo al giudizio di responsabilità (si consideri che anche i nazisti, a Norimberga, hanno fatto ricorso a questa giustificazione e sono stati quasi tutti condannati)? E l’ordine di abbattere l’aereo può considerarsi legittimo, posto che anche quella di 164 persone costituisce, pur sempre, una strage? E se su quell’aereo ci fosse stata sua moglie o un suo figlio, l’Ufficiale avrebbe preso ugualmente la decisione di abbattere l’aereo? E gli spettatori chiamati a decidere riterrebbero ugualmente innocente l’Ufficiale, per aver potenzialmente impedito una strage ben più grave, se sull’aereo abbattuto vi fosse stato un loro congiunto? Ed ancora, mutatis mutandis: è lecito torturare un terrorista per evitare il compimento di una strage (si pensi ad un film come “Zero dark thirty” o, fuori dalla finzione, a Guantanamo)?

Sono solo alcuni degli interrogativi che la pièce teatrale getta in faccia agli spettatori, i quali – giura chi l’ha visto – inizialmente sono tutti dalla parte dell’imputato, convinti della sua innocenza, salvo poi, in molti casi, a seconda delle sollecitazioni ricevute o della loro specifica predisposizione, cambiare punto di vista. Certo, l’idea di condannare il pilota è oggettivamente difficile: difatti in quasi tutti gli stati in cui “Terror” è stato rappresentato il giudizio finale degli spettatori è stato favorevole all’imputato, sia pure con percentuali diverse, con la sola eccezione degli spettatori giapponesi, che si sono pronunciati invece per la sua colpevolezza.

Uno spettacolo forte, complesso, che è anche rappresentazione di uno scontro fra moralità pubblica e moralità privata e che pone lo spettatore di fronte al suo modo di rapportarsi con la Legge e la Giustizia. Sicché viene spontaneo chiedersi, in conclusione: se e quando lo spettacolo sarà rappresentato in Italia, gli spettatori italiani o, ancora più specificamente, i lettori di Quotidiano come si pronunceranno?
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