Il “cuore docile” di Salomone. La giustizia non è solo conoscenza

Il “cuore docile” di Salomone. La giustizia non è solo conoscenza
di Roberto TANISI
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Lunedì 5 Giugno 2017, 17:54
Lo hanno chiamato Giovanni. Ha vissuto solo poche ore. Lo avevano trovato al margine della strada un passante e gli operai della nettezza urbana che, nelle prime ore del mattino, erano addetti a raccogliere la spazzatura, in una strada di un quartiere bene di Settimo Torinese, estrema periferia di Torino. Respirava ancora, quel piccolo fagotto. Lo hanno portato in Ospedale, ma non ce l’ha fatta. Una “spazzatura” diversa, un particolare tipo di “rifiuto”. La perizia autoptica ha accertato che il piccolo Giovanni, subito dopo la nascita, era stato scaraventato giù per strada dal balcone.

Mentre gli operai lo raccoglievano ed erano in attesa dell’ambulanza, due persone, un uomo e una donna, guardavano incuriositi per strada. Poche ore dopo i Carabinieri hanno bussato a quell’appartamento, hanno trovato il bagno tutto sporco di sangue, hanno messo sotto torchio la donna che, alla fine, ha confessato: “Ho partorito da sola, mio marito dormiva nell’altra stanza, non sapeva neppure che ero incinta. Io quel bambino non lo volevo. L’ho gettato dal balcone? Non ricordo nulla”.

Pochi giorni prima, a Trieste, una storia analoga: una sedicenne, dopo aver partorito in casa, ha pensato di disfarsi della figlia mettendola in una borsa e calandola con la corda nel giardino. La piccola è stata trovata alcune ore dopo, ancora in vita. Portata in ospedale non ce l’ha fatta. Anche in questo caso la ragazza, agli inquirenti che la interrogavano, ha risposto: “Ero disperata”.

Storie di ordinaria disperazione e di ordinaria follia. Le indagini su queste due tragedie faranno, ovviamente, il loro corso e su di esse si pronuncerà il giudice. Resta, tuttavia, la sensazione, amara, che forse queste storie avrebbero potuto avere un esito diverso, se solo quelle due donne avessero avuto un sostegno morale, psicologico, forse anche economico.

Ma queste storie ci dicono anche altro. Non so perché, ma mentre ci riflettevo sopra, dopo averne letto sul giornale, la mente è andata ad un episodio della Bibbia, raccontato nel libro dei Re: quello delle due prostitute che si rivolgono al re Salomone rivendicando entrambe la maternità di un neonato. La storia è nota. Delle due donne, l’una accusa l’altra di averle sottratto il bambino dal grembo, durante la notte, per sopperire alla perdita del proprio figlio, morto soffocato; la seconda donna si difende sostenendo che il neonato conteso è suo figlio e che il morto è invece il figlio dell’altra. Salomone allora ordina che gli venga portata una spada e che il bimbo sia tagliato in due, così da darne una parte a ciascuna delle due donne che lo rivendicano come proprio. A questo punto una delle due, mossa dalla pietà per il figlio, rinuncia alla sua pretesa e implora che l’altra lo tenga per intero. Questa, invece, non si scompone per il giudizio del re e accetta di ottenerne la metà. A questo punto, però, Salomone decide di assegnare il bambino alla donna che aveva rinunciato alla sua pretesa, ritenendo essere lei la vera madre del piccolo.

Questo giudizio, non a caso passato alla storia come “salomonico”, è stato nel corso dei secoli considerato un esempio di saggezza e di giustizia, anche se non sono mancate considerazioni ironiche, o addirittura sarcastiche, come di decisione frutto non di un’adeguata ponderazione dei fatti, ma di un furbo escamotage. Di più: queste ultime sono forse oggi prevalenti, anche se, a mio modo di vedere, immeritate.

Il brano biblico induce, infatti, più di una riflessione: sul peso del decidere, ma anche sul concetto di maternità, che nel testo sacro appare molto più moderno di quanto ritengano oggi taluni maître à penser.

La prima. Il racconto è preceduto da un dialogo di Salomone con Dio. Nel corso di una visione notturna, al Signore che gli chiede cosa vorrebbe per sé, Salomone non risponde “ricchezze e potere”, ma chiede un “cuore docile” che gli consenta di “rendere giustizia” al suo popolo. Il Signore lo ascolta e gli dice: “Poiché… hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco… io ti concedo un cuore saggio e intelligente…”. Salomone non sollecita, dunque, né la conoscenza, né il sapere, né una tecnica particolare per risolvere le controversie. Chiede una coscienza che gli consenta di ascoltare la Verità ed ottiene da Dio la saggezza (che non è – o non è solo - sapienza), ma la precondizione dell’intelligenza (e, dunque, della conoscenza: intus-legere), ossia una virtù che gli faccia formulare, nei casi concreti che gli capiteranno, un giudizio equilibrato e giusto. Salomone sa bene, infatti che, per governare rettamente, la sola sapienza (intesa come somma di conoscenze) non basta, ma che occorre un “cuore docile”, aperto all’ascolto e sensibile alla giustizia.

La seconda. Il racconto biblico mostra anche la difficoltà del giudizio (al quale Salomone – e qualunque giudice - non può sottrarsi), attesa la carenza di prove a sostegno delle tesi rappresentate dalle due donne. Salomone, tuttavia, è in grado di far emergere la verità, perché egli ha il “cuore docile” e sa che nessuna madre, degna di questo nome, potrà mai far lasciare che il proprio figlio sia tagliato a metà, pur di ottenerne il riconoscimento. Con l’escamotage di tagliarlo in due il Re spinge la vera madre a manifestarsi, con una rinuncia, per il bene del figlio. Come dire: la verità si manifesta dal basso ma bisogna saperla ascoltare, con umiltà, per emettere una decisione “giusta”.

Terza e ultima considerazione. Il racconto non dice se la donna che rinuncia al figlio pur di salvarlo sia la madre naturale del piccolo, colei che lo ha partorito, la sua madre biologica. Dice, però, che la donna che rinuncia ad avere il bambino è “colei che si comporta da madre”, non tanto per aver dato al piccolo la vita in senso biologico, ma per aver riversato su di lui un amore talmente grande al punto di rinunciarvi, pur di salvargli la vita. Ecco, forse è proprio per questo che la tragedia di Settimo Torinese, quasi per contrappasso, mi ha fatto tornare alla mente il racconto di Salomone e mi ha spinto a rileggere quelle pagine del Libro dei Re. Per essere genitori non è sufficiente essere tali solo dal punto di vista biologico, ma occorre esserlo soprattutto in senso relazionale, il solo che importi al giovane re di Israele. Il che dovrebbe far riflettere sulle critiche, talvolta feroci, che si sono appuntate su talune pronunce giurisdizionali (per esempio in tema di stepchild adoption) che, ad un approccio basato su un rapporto meramente biologico fra genitore e figlio, hanno preferito invece un approccio di tipo relazionale, basato su un amore totalmente oblativo. Forse in quelle decisioni c’è stato anche un pizzico dell’antica saggezza di Salomone.
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