I molti segnali delle comunali
non ancora colti a destra e a sinistra

I molti segnali delle comunali non ancora colti a destra e a sinistra
di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 2 Luglio 2017, 17:56
Esistono due modi per vivere la sconfitta in politica: fingere di ignorarla, arrampicarsi sugli specchi per ridimensionarne la portata, esaltare e contrapporre un dato positivo ai tanti negativi, aggrapparsi al “benaltrismo” delle responsabilità, evidenziare magari le debolezze di chi ha vinto. Insomma: diluire, minimizzare, negare. Oppure, ecco il secondo modo, guardare con coraggio in faccia alla realtà, riflettere senza infingimenti sui propri errori e sulle proprie sviste, capire che cosa non ha funzionato, aggiornare l’analisi della “fase” anche in seguito ai profondi cambiamenti sociali ed economici intervenuti, considerare la tranvata per quella che è, senza soffermarsi più di tanto sulle pagliuzze degli occhi altrui, ripensare profondamente il proprio modo di essere e di presentarsi, capire le correzioni di rotta per riprendere la navigazione e indicare l’approdo dove si vuole giungere. E qui il consiglio va soprattutto al centrodestra pugliese a trazione fittiana: il primo modo rischia di produrre nuove e rovinose sconfitte; il secondo dà la possibilità di rialzarsi, rimotivare le proprie forze e il proprio esercito per riprendere il cammino, lanciare lo sguardo verso l’orizzonte e verso nuove sfide.
Esistono, in verità, due modi anche per vivere le vittorie in politica: rimanere accecati dall’esaltazione del successo, fino al punto di ignorare i punti deboli dell’affermazione, scambiare per oro anche ciò che non luccica, mettere insieme cose e realtà che vanno tenute separate, distinte e distanti, considerare un successo ciò che, invece, va letto come autentico campanello d’allarme per il futuro, caricare di valori e significati impropri la vittoria.
E c’è l’altro modo, invece, che è quello - anche in questo caso - di leggere la realtà con tutte le zone d’ombra, di non nascondersi le verità di fronte alla vittoria, di non lasciarsi incantare dalle sirene della propaganda. E qui, il consiglio va soprattutto al centrosinistra pugliese a trazione Emiliano: il primo modo, rischia di oscurare i limiti, anche pesanti del governo regionale, e di portare a una ravvicinata rotta di collisione la connessione con la società; il secondo, offre l’opportunità di correggere in tempo le criticità e di rilanciare il partito e l’azione di governo.
Sia detto senza toni nostalgici: una volta, tanto tempo fa, nelle dure e selettive scuole di partito, una delle prime lezioni impartite ai giovani aspiranti dirigenti era l’analisi del voto. Sbagliare l’analisi del voto significava (e significa) sbagliare anche l’analisi della “fase”, e sbagliare “fase” voleva dire (e vuol dire) assumere scelte politiche controproducenti. Ecco, leggendo le interviste, le prese di posizione, i commenti al voto comunale di domenica scorsa si ricava plasticamente la grande assenza di quegli insegnamenti, mai tanto rimpianti come oggi.
Cominciamo dal centrosinistra. La lettura più bislacca e fuorviante è sicuramente quella presentata sotto lo slogan del modello vincente “appulo-Emiliano”. Intanto, il Pd pugliese - di cui il governatore fa parte a pieno titolo - esce tutt’altro che in salute dal voto di domenica scorsa, fermandosi a percentuali risibili, spesso al di sotto delle due cifre in città e comuni importanti. E chi invoca, a parziale giustificazione, il drenaggio delle molte liste civiche in campo, finge di ignorare che gran parte di quell’elettorato non è trasferibile armi e bagagli a una sigla politica nazionale, quando questa decide di presentarsi, alle politiche, non più sotto mentite spoglie. A dimostrarlo, negli anni più recenti, ci sono stati casi clamorosi casi al Nord e al Sud, in Lombardia e in Sicilia, e anche in Puglia. In più, la coalizione di centrosinistra pugliese - a geometria molto variabile di paese in paese - appare tutt’altro che un’alleanza strategica e delle consolidate prospettive. Basti qui ricordare il caso di Taranto: al primo turno il Pd, dopo spaccature inenarrabili, ha praticamente presentato agli elettori due candidati (e mezzo), mentre l’intero centrosinistra era in campo con ben sei nomi. Non solo. Dalle urne è uscito sonoramente sconfitto il racconto della città anti-Ilva, fatto in questi anni da ampi settori del centrosinistra, da una parte del Pd e dallo stesso governatore. Se, infine, si riflette che al ballottaggio ha votato appena il 32% degli aventi diritto, allora c’è di che essere preoccupati piuttosto che euforici.
A Lecce, poi, parlare di modello vincente “appulo-Emiliano” è ancora più azzardato. Vale la pena ricordare che il Pd ha raccolto l’8% ed è un partito”sinistrato”, del tutto lontano dalle dinamiche sociali, economiche e culturali della città, oltre che estraneo al tessuto connettivo della comunità. Soltanto la forza trainante di un candidato sindaco - pescato dal cilindro guarda caso all’ultimo momento utile e non certo indicato da Emiliano (escluso, peraltro, dal comizio finale) - e la rottura nel centrodestra maturata da Delli Noci hanno portato a una vittoria che sa di “miracolo”. Senza dimenticare che al primo turno l’intera coalizione di centrosinistra - tra Pd e cespugli civici - non ha superato nemmeno il 25%, tra le percentuali più basse d’Italia. Parlare di modello “appulo-Emilano” vincente ci sembra davvero un’iperbole, inventata da chi - non caso - non vive in Puglia e che della Puglia conosce ben poco. Tocca a Salvemini, ora, avere gli occhi ben aperti sull’affollata corsa per salire sul carro del vincitore e mantenere ferma la barra su alcuni punti chiave: rapporto solido con Delli Noci, giunta di alto profilo e aperta anche a settori e competenze non di area, atteggiamento inclusivo verso ceti e interessi non immediatamente riconducibili al proprio blocco, tenere a debita distanza “padrini” politici baresi e leccesi. I primi passi sembrano andare in questa direzione, a cominciare dall’offerta della presidenza del Consiglio a Giliberti, indipendentemente dall’esito del lavoro della commissione elettorale che deciderà tra qualche settimana sul premio di maggioranza.
E veniamo al centrodestra pugliese che, uscito sconfitto dalle comunali, sta mostrando in questi giorni la propria incapacità nel fare i conti con ciò che è successo, soprattutto nelle sue roccheforti storiche espugnate dal centrosinistra. Trovare conforto e motivo di esaltazione nel buon risultato di Direzione Italia, primo partito in Puglia e primo partito nettamente a Lecce, è francamente fuorviante. Scaricarsi, poi, colpe e accuse tra alleati, cercando un capro espiatorio e aprendo la caccia ai responsabili veri o presunti dei voti disgiunti, vuol dire solo mutuare dalla sinistra il ben noto “tafazzismo”.
Appare del tutto evidente un ritardo culturale nel capire e cogliere ciò che è davvero accaduto e, verosimilmente, ciò che potrà ancora accadere da qui a qualche mese. Nulla è più come prima, eppure ci si attarda in schemi, categorie, riti, modi di ragionare, codici e linguaggi completamente obsoleti. Si continua a leggere la “fase” con occhi e sguardo rivolti al passato. Emergono risposte esclusivamente politiciste, imperniate su schemi in disarmo o, almeno a Lecce, sulla recriminazione per il pasticcio compiuto in fase di scelta del candidato, supportata dalla certezza - del tutto priva di fondamento e di analisi - che con altri nomi l’esito delle elezioni sarebbe andato diversamente. Nessuno, finora, ha detto chiaro e tondo che il vero risultato negativo al primo turno non è stato tanto il 45% raccolto da Giliberti, quanto quel 52% delle otto liste schierate (-15% rispetto a cinque anni fa) con circa 300 candidati. Nessuno si è ancora soffermato sulla consistenza, sulla qualità e sulla competitività dell’offerta politica presentata agli elettori. E nessuno ha detto una parola sull’improvvida sottovalutazione di segnali e indicatori che a Lecce, ma non solo a Lecce, stavano emergendo da tempo e confermavano un’incrinatura nella “connessione sentimentale” con ampi segmenti della città. Come, peraltro, hanno dimostrato anche le preferenze raccolte da quanti erano considerati grandi “portatori di voti”.
Predominante è stata l’idea, fino alla vigilia del voto, che Lecce fosse una roccaforte comunque e sempre inespugnabile: un’idea intrisa di provincialismo, fuori dal tempo e dai processi in corso in tutto il mondo. Nell’era globalizzata non esistono muri e frontiere inespugnabili, non esistono “enclave” disconnesse con altri mondi. Prima o poi i venti, le tendenze, i cambiamenti in corso arrivano ovunque, anche a Lecce e nel Salento. Ma davvero si pensava che il processo di rivolta contro le élite e l’establishment - cominciato altrove anni fa e che, altrove, negli ultimi tempi è già in via di riflusso o di nuove ricollocazioni politiche - non potesse mai raggiungere, seppur con anni di ritardo, questa parte d’Italia? Davvero si poteva considerare il voto delle “167” e dei salotti borghesi del centro storico acquisito per sempre, in nome della tradizione di destra della città, indipendentemente dall’offerta politica e dagli uomini chiamati a realizzarla? Sottovalutazione, supponenza, finanche arroganza politica e culturale. Solo così si può spiegare l’incapacità di capire in tempo che un intero ciclo politico-amministrativo volgesse al termine e che la spinta propulsiva del governo fosse in via di esaurimento. E sia chiaro: non perché il centrodestra pugliese a trazione fittiana abbia dato prova di malgoverno. Al contrario, in molte esperienze locali, a cominciare da Lecce, sono stati raggiunti risultati oggettivamente significativi e importanti, nell’arco dei vent’anni, e anche nell’arco dell’ultimo decennio. Lo abbiamo detto e lo ribadiamo, essendo noi al di sopra di ogni sospetto, visti i rapporti molto dialettici (dolce eufemismo) tra mondo dell’informazione e giunta uscente: Perrone è stato un buon sindaco di Lecce. Il punto, su cui riflettere, è che proprio i risultati positivi, proprio i cambiamenti innescati hanno portato alla chiusura di un ciclo politico-amministrativo e del ceto che lo ha interpretato, incapace di rinnovarsi, di uscire dalla prigione dell’autoreferenzialità e dal metodo della cooptazione, arroccato in un “populismo identitario” funzionale ormai solo ai meccanismi del consenso.
Si chiama “eterogenesi dei fini”: le trasformazioni messe in movimento alla fine travolgono gli stessi autori se questi non si rinnovano, non innovano metodi e modi fare, non accompagnano il processo di cambiamento con un proprio cambiamento, e non certo di facciata o con semplici operazioni da maquillage. Ecco, al netto di analisi meccanicistiche e deterministiche nel rapporto tra struttura e sovrastruttura, è come se il ceto politico-amministrativo sia rimasto fermo, immutabile, prigioniero della propria tradizione, mentre la società e tutto ciò che girava intorno a Palazzo Carafa cambiavano profondamente. Pensiamo al processo di trasformazione economica e sociale in corso nel Salento da anni, ai nuovi ceti sociali che stanno emergendo e si stanno affermando con la riconversione del modello di sviluppo. E allora: come non capire che questo travolgente processo di cambiamento stava producendo nuovi bisogni, nuove domande di governo e nuove aspettative dalla gestione delle istituzioni pubbliche, la voglia e la necessità di un nuovo sistema-città? E come non capire in tempo che i vecchi metodi di governo, la gestione padronale e amicale delle istituzioni, l’ormai famosa “camera di compensazione” tra interessi e bisogni delle élite, risultavano ormai troppo angusti, vissuti come gabbia e camicia di forza dai ceti emergenti? La stessa rottura di Delli Noci, bollata nelle ormai note ed evangeliche “lettere ai leccesi” con l’impolitica categoria del tradimento, non è stata colta e letta in questo contesto. Invece, il distacco, la rottura, la frana non erano dovute soltanto alle ambizioni personali, ma rispondevano a una domanda e a un sentimento diffuso sul territorio, come hanno dimostrato i consensi.
Ecco la vera materia di riflessione che dovrebbe essere al centro di un profondo ripensamento e di una vera analisi della sconfitta (e della fase) nel centrodestra. Recriminare sul nome del candidato, pensare che con altri nomi sarebbe arrivata la vittoria, inseguire una ravvicinata rivincita puntando sullo stallo in Consiglio, firmare patti d’onore di appartenenza che lasciano il tempo che trovano, pensare di ripresentarsi agli elettori con gli stessi nomi e le stesse facce (non tutte presentabili) come se il voto di domenica fosse stato solo un incidente di percorso, significa non aver capito il cambio di “fase”. E cioè che Lecce è una città in cammino, sta vivendo - anche con contraddizioni - l’atteso salto di qualità da “paesone di provincia” a “città europea”. Perciò, guardare al passato senza riconoscere i propri errori significa non capire il presente e, soprattutto, il futuro.
 
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