I segnali per la Puglia e il Salento dalla marcia di Torino

di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 11 Novembre 2018, 09:17 - Ultimo aggiornamento: 18 Novembre, 19:42
Ci sono manifestazioni di piazza e proteste di popolo che diventano periodizzanti nella storia di un Paese, nel senso che rappresentano uno spartiacque tra prima e dopo, per le forti ricadute che possono avere sul sentimento pubblico e per il cambio di fase che producono nella società e nella politica. Ancora non sappiamo se tale si rivelerà nella storia d'Italia la manifestazione degli oltre trentamila, ieri a Torino, a favore della Tav, già paragonata ad altre marce che in passato hanno dato voce e coraggio a maggioranze silenziose, incubando svolte importanti nel nostro Paese.
Vedremo nelle prossime ore quali saranno gli effetti reali, innanzitutto, sul sentimento pubblico nazionale, oltre che sulla tenuta della coalizione di governo e del contratto tra Lega e M5s. La rotta di collisione è evidente: tra le adesioni alla marcia autoconvocata Sì Tav spiccava quella della Lega; tra i principali obiettivi contestati dai manifestanti c'era il M5s, insieme a tutti quelli del fronte del no. Difficile per i pentastellati riuscire a digerire un altro schiaffone sul fronte piemontese, dopo le clamorose capitolazioni in terra pugliese su Ilva, Tap e anche xylella, e dopo la brusca frenata imposta da Salvini sulla prescrizione. Poche settimane e sapremo.
È, invece, certo che l'Italia, non solo Torino, aveva assolutamente bisogno della grande e pacifica manifestazione di ieri. Ne aveva bisogno perché venisse finalmente spezzato quel monopolio sulle questioni ambientali conquistato dai pasdaran del no a tutto, quella sorta di pensiero unico, solo presuntivamente maggioritario, venutosi formando anche grazie alla sapiente gestione della rete, all'arroganza degli squadristi da tastiera, alla disinformazione organizzata dai troll, alla sindrome del complottismo, al mito della decrescita felice, alla radicalizzazione delle posizioni con la divisione tra buoni e cattivi, tra noi e loro. E alla violenza prevaricatrice dei professionisti della piazza.
Ne aveva certamente bisogno l'Italia, della manifestazione di ieri a Torino, per capire che movimenti minoritari, benché urlanti, non possono detenere il potere della verità unica e impedire sempre la realizzazione di progetti e opere che hanno superato tutte le procedure democratiche, di legittimità e di controllo, previste dalle leggi della Repubblica. Ma della manifestazione torinese avevano bisogno, ancor di più, la Puglia e il Salento, perché qui più che altrove, negli ultimi anni, il fronte del no a tutto ha coltivato e sperimentato quell'illusorio paradigma che rigetta il passato industriale e rifiuta qualsiasi ipotesi di sviluppo e di infrastrutturazione del territorio, nel nome di una sorta di arcadia pre-moderna e di un salvifico pauperismo. Un paradigma che ha fatto leva su una forte radicalizzazione del fattore identitario e sull'accentuazione della visione sovranista del territorio, trovando terreno fertile nelle popolazioni anche per i fallimenti storici degli interventi pubblici decisi a livello centrale e calati dall'alto. Il guaio è che, in Puglia e nel Salento, questo sentimento non si è esaurito nei movimenti di protesta, ma ha preso forma e sostanza anche dentro la politica e il governo delle istituzioni locali, perfino nelle amministrazioni periferiche dello Stato con il no a qualsiasi trasformazione dell'esistente, con la collocazione del Mezzogiorno all'opposizione a prescindere, con il ricorsismo (su tutto e contro tutti) elevato a metodo di governo e con l'ormai diffusa interiorizzazione dello slogan della prima Lega bossiana: padroni a casa nostra. L'incrocio tra difesa passiva dell'ambiente e suddismo è diventata, qui più che altrove, cultura di (non) governo del territorio.
Non ci riferiamo soltanto alla xylella, all'Ilva, a Tap, ma anche al vergognoso stallo sulla statale 275, all'infinita telenovela della Regionale 8, alla contesa sugli approdi turistici e sullo smontaggio degli stabilimenti balneari, alla contestazione degli impianti per il ciclo integrato dei rifiuti. Qualsiasi ipotesi di modernizzazione delle infrastrutture e di valorizzazione delle risorse ambientali, di cui una terra come il Salento ha bisogno come il pane se vuole garantire alle future generazioni a non emigrare, diventa oggetto di proteste, polemiche e ricorsi ai poteri giudiziari; qualsiasi progetto di opera pubblica - anche quella più oggettivamente necessaria per la sicurezza dei cittadini o per lo sviluppo del territorio - si trasforma in un feticcio per i professionisti della piazza o diventa terreno di conflitto tra poteri dello Stato. Con un risultato sotto gli occhi di tutti: la difesa passiva dell'ambiente non solo si rivela inefficace alla vera tutela del patrimonio paesaggistico, ma crea disvalore economico, sociale ed anche ambientale. Pensiamo alla vicenda dei lidi, emblematica: montare e smontare ogni sei mesi arreca più danni che vantaggi alle dune, quelle stesse dune oltraggiate e degradate negli anni da migliaia di insediamenti edili abusivi senza che nessuno - ambientalisti, amministratori locali, soprintendenti e magistrati - intervenisse. Come molti più danni all'ambiente creano il montaggio e lo smontaggio dei pontili nel porto di Otranto, dove - è bene ricordarlo - le imbarcazioni sono parte integrante da molti secoli della storia e del paesaggio, sono un tutt'uno con i bastioni. Ma tant'è: tutto finisce a scontro, conflitto, tensione, dialogo tra sordi. E tutto finisce con le carte in Procura, con i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato. La politica sempre più debole, priva di visione e competenze, condizionata dal populismo digitale, non riesce a produrre mediazione, compromesso, sintesi tra interessi divergenti. Che lezione da Torino anche su questo fronte: tra i manifestanti c'erano il governatore Chiamparino e l'ex sindaco Fassino. Ve li immaginate in Puglia o nel Salento il governatore Emiliano e i sindaci sfilare contro i depositari del fondamentalismo ambientalista e sfidare l'onda emergente dalla rete?
C'è di più. A rifletterci bene, la cosiddetta difesa passiva dell'ambiente, nel nome di un velleitario ritorno a un'arcadia quasi paradisiaca, è il più egoistico dei comportamenti delle generazioni correnti nei confronti delle generazioni future e, non a caso, viene interpretata e coltivata soprattutto dal quel ceto medio riflessivo, garantito e protetto, senza problemi di occupazione e sviluppo, indifferente alla creazione di pil e ricchezza, magari prossimo alle pensione e solo desideroso di una comoda e tranquilla vecchiaia in una terra ancora bella, benché degradata da abusi e scempi. Un comportamento che equivale a una sicura condanna per i giovani di questa terra. Così a loro stiamo imponendo una sola scelta: emigrare. Ecco perché è auspicabile che la manifestazione di ieri a Torino faccia aprire gli occhi anche alla Puglia e al Salento, a Emiliano e ai sindaci, mettendo a nudo i danni di quel falso ambientalismo sfruttato sempre più come palcoscenico per ottenere visibilità e per costruire carriere politiche e fortune personali. Senza dimenticare che, come hanno già dimostrato i casi di Ilva e Tap, e come probabilmente accadrà con la vicenda Tav, chi promette fuoco e fiamme all'opposizione poi è pronto ad accettare tutto ciò che aveva contestato, pur di conservare il potere e le poltrone. Non solo il danno, dunque. Anche la beffa.
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